Milano - Ha deciso di raccontare i suoi 4 anni in Atm dopo aver letto la testimonianza di Luca, riportata martedì su queste pagine. Anche Alessio Moranda, 36 anni, è stato agente di stazione, anche lui lungo la Metropolitana 1 e anche lui ha deciso di dimettersi perché impaurito dalle offese, dalle minacce di morte e in qualche caso dagli schiaffi rimediati nel mezzanino della rossa. Si è dimesso perché ha avvertito che la paura aveva preso il sopravvento, che stava diventando un altro, uno di quelli che si girano dall’altra parte, che si stava alienando.
La decisione
"Mi sono dimesso da Atm lo scorso 8 agosto con decorrenza 9 settembre. Dopo 4 anni, lasciando il posto fisso per un contratto a tempo determinato – racconta Moranda –. Non ne sono pentito: adesso riempio scaffali nei supermercati, faccio il merchandiser, curo l’esposizione dei prodotti di un noto brand dell’alimentare nei vari punti vendita. È un lavoro fisicamente più provante ma sono sereno, vado a lavorare tranquillo, non ho attacchi di panico come mi capitava quando pensavo che il giorno seguente avrei dovuto prender servizio come agente di stazione".
"Quando mio padre ha visto il filmato dell’aggressione avvenuta sabato alla stazione M3 di Lodi, mi ha detto: 'Menomale che hai deciso di cambiare'. Mia sorella mi ha confessato che non vedeva l’ora. Perché c’è anche questo aspetto: la paura di chi ti sta vicino, di chi ti vuole bene. Sembra assurdo da raccontare ma quando ero di turno in alcune stazioni della M1, i miei cari si preoccupavano e, se riuscivano, passavano dal mezzanino giusto per darmi uno sguardo, per darmi un attimo di conforto. Le pare normale? Facevo l’agente di stazione, non il soldato in guerra".
Odissea lunga quattro anni
È un lungo racconto, quello di Moranda. Scorre fluido, veloce e vivace: proprio come uno sfogo. "In 4 anni mi hanno messo le mani addosso 3 volte, ho preso schiaffi, in altrettanti casi mi hanno minacciato di morte, mentre gli insulti non si contano. E una volta che sei fuori dal gabbiotto non hai più manco il pedale per allertare la sala operativa e chiamare i soccorsi. Raggiungiamo le stazioni della metro con le nostre auto e con le nostre auto ce ne andiamo, una volta che le abbiamo chiuse. Se qualcuno ti aspetta fuori, come capitato a qualche collega, non c’è nessuno che ti difenda. Sei solo nel mezzanino, perché ci vorrebbe almeno un secondo agente di stazione. E sei solo fuori. Alla fine – spiega Moranda – vai in autoprotezione, ti crei barriere psicologiche per cui finisci con l’abbassare la testa, col cercare di essere trasparente, di non interagire. Prendi servizio, fai tutto quello che ti compete nel momento di aprire la stazione e poi speri che il turno finisca senza che ti accada niente, che arrivi la sera senza che nessuno ti metta la mani addosso per un qualunque motivo. Ha ragione Luca, il collega che ha raccontato la sua vicenda prima di me: la gente non capisce che il non vedere e il non sentire, per noi sono una forma di autodifesa. E non sa che noi non siamo controllori. Lavoriamo nei gabbiotti, a ridosso dei tornelli ma non siamo controllori".
Moranda ha scelto di chiudere con la paura e gli attacchi di panico, ha scelto di smettere di abbassare la testa: "Mi sono detto che rivolevo la mia vita – dice l’ex dipendente Atm – rivolevo l’entusiasmo di lavorare". "Quando ho fatto il full time ero in servizio 6 giorni su 7, maturavo il diritto ad avere due giorni di fila di riposo solo dopo 17 settimane di lavoro, fare gli straordinari non significava aggiungere qualche ora ai turni di sempre ma fare il doppio turno, stare nel mezzanino 13 ore di fila, magari senza mai vedere la luce del sole perché arrivi al mattino presto, che è buio, e te ne vai alla sera. Ma lo stipendio è modesto se non fai gli straordinari, soprattutto per il costo della vita di Milano. Non bastasse, il continuo rischio dei violenti: mi sono detto che non ne valeva la pena. E conosco altri 4 colleghi che han fatto la stessa scelta".