Milano - Dalla sabbia del Sahara ai ghiacciai, passando dai dieci fiumi più inquinati del mondo, per guardare sempre oltre. Oltre i propri limiti, ma non solo. Oltre i limiti della Terra. Per raccontarli, per mostrare i rischi che stiamo correndo tutti. L’esploratore Alex Bellini è pronto a ripartire. Ma prima farà tappa al Politecnico di Milano, il 14 settembre, per il Festival internazionale dell’Ingegneria.
Il viaggio più bello?
“È sempre il prossimo. Quello che è nelle fasi di creazione, sogno, desiderio. Tutto da scrivere e progettare. Una volta che li vivi li accumuli nella memoria, ma non hai la possibilità di intervenire, non ci sono incertezze. Il misurarsi anche con la possibilità che il viaggio non si realizzi o con gli imprevisti da risolvere è la parte che prediligo”.
Com’è cominciato tutto?
“Tanti anni fa, nel 2001, alla Marathon des Sables, nel Sahara, in piena autonomia. Avevo un approccio diverso da quello che ho oggi. Avevo 22 anni, stavo cercando stimoli. Mio papà è sempre stato un appassionato motociclista del deserto, mi affascinava. Ero al primo anno di università. È cambiato tutto”.
In che modo?
“Ho capito che se c’era un settore in cui avrei voluto applicare tempo e risorse non era quello di Scienze bancarie, anche se ci vuole spirito di adattamento pure lì. Era stata una scelta libera, ma non totalmente. Ho deciso di intraprendere un percorso diverso, sinonimo della libertà”.
L’avventura estrema.
“Sì, anche se la chiave di lettura che do oggi all’esplorazione è molto diversa dai primi viaggi: all’inizio era un modo per confrontarmi con me stesso. Dal 2018 è un’occasione per conoscere cosa sta accadendo nel mondo con i cambiamenti climatici in corso, per sensibilizzare, divulgare, educare le persone che non possono accedere a luoghi che sono considerati marginali, dove vivono in pochi, spesso ingiustamente discriminati e poco considerati perché l’economia si muove altrove. E invece sono luoghi-sentinella del cambiamento. Ho deciso di dar voce alle persone che li abitano, capaci di adattarsi e di mostrare cosa sta accadendo davvero”.
Qual è stata l’avventura-spartiacque?
“L’attraversamento in solitaria del Vatnajokull, il ghiacciaio più grande d’Europa o, meglio, quel che rimane. Era il 2017. La spedizione Freeze the Moment mi ha dato l’opportunità di raccontare come sta cambiando l’Islanda. Non potevo interagire con nessuno, non c’erano esseri umani. Ho iniziato ad applicare l’esplorazione a fini divulgativi, ma mi mancava l’aspetto sociale. La sfera ecologica è solo uno dei pilastri di questa policrisi. Dagli anni successivi ho iniziato a compiere viaggi in luoghi estremamente urbani come Cina, Pakistan, India per incontrare persone, farmi contaminare dai territori”.
Anche l’ultima sfida va in questa direzione ed è in tre atti.
“Sì, Eyes on ice è un progetto triennale dedicato ai ghiacci. La prima spedizione si è svolta tra febbraio e marzo: 1.800 chilometri in 37 giorni in bicicletta. Una bici particolare che ho sviluppato insieme a tecnici specializzati: è stampata in 3D con un braccio robotico, usando materiale riciclato. Mi sono sentito come i fratelli Wright quando hanno spiccato il volo con l’aeroplano. L’industria della bici, al di là di timide innovazioni, si è fermata in questi anni agli stessi materiali. Abbiamo voluto cambiare i paradigmi di costruzione e decentrarla dalla grande industria”.
E così è nata la Fatbike.
“Sì, tutt’altro che comoda e leggera: pesa 68 chili. Ma ci ha portati fino alla destinazione”.
Quanto la tecnologia aiuta nelle spedizioni?
“Sin dalla notte dei tempi le esplorazioni hanno portato a un avanzamento tecnologico. Il dispositivo tecnologico è un abilitatore, dà sicurezza, permette di comunicare. Le competenze tecniche servono a validare idee, nella progettazione di un viaggio. Sono un paracadute di fronte a imprevisti. Abbiamo testato la nostra fatbike nella camera climatica del Politecnico, alle peggiori condizioni, a meno 40 gradi per partire con una maggiore tranquillità”.
E arrivare al traguardo.
“La bicicletta è stata un mezzo per conoscere il territorio, attraversarlo e incontrare persone. È un argomento molto complesso, sul breve periodo è più economico vivere con un clima meno rigido; è più facile per alcune specie animali sopravvivere. Ma ci sono problemi di comunicazione, di approvvigionamento del cibo, villaggi erosi, abbandonati. Ricordo le parole di un testimone: il cambiamento climatico è una spada a doppio taglio, gli effetti sono sotto gli occhi”.
Prossima destinazione?
“Groenlandia, da Sud a Nord, attraverso i villaggi, cercando di creare un rapporto di fiducia con gli abitanti. Meno estremo, forse, ma con un approccio più antropologico e sociologico per investigare stili di vita nei luoghi epicentro dei cambiamenti climatici. Poi aspetterò l’estate artica per tentare di raggiungere il Polo Nord geografico in barca, tra blocchi di ghiaccio. Se dovessi riuscirci sarei il primo: sarebbe un successo personale, ma un fallimento dell’intera umanità. Sarebbe evidente lo stato di scioglimento dei ghiacciai nell’Oceano Artico, che si prevede libero dai ghiacci entro il 2050”.