Ha scritto un libro intitolato “Architettura e rivoluzione“. Perché Nadia Bertolino - architetto e ricercatrice in progettazione urbana all’Università di Pavia, con esperienza in pratiche di progettazione partecipata e coinvolgimento della cittadinanza - ci crede, nella visione di città sempre più a misura di donna. "Troppo spesso il punto di vista femminile e le esigenze delle donne vengono trascurate in ambito urbanistico – incalza – A oggi consentire alle donne di progettare spazi urbani, liberando così la figura femminile da pregiudizi, è quasi utopia".
Come sarebbe una città inclusiva dal punto di vista del genere? Si sente esclusa in quanto donna nella progettazione urbana?
"Nell’ambito della progettazione urbana a Milano sento la mancanza di interesse genuino da parte delle istituzioni alla questione di genere. È un tema che viene strumentalizzato a fini politici, slogan bellissimo ma che non ha quasi mai ricadute pratiche o di amministrazione".
Le sue “camminate di genere” sono un modo per dare voce alle donne nei processi di definizione delle trasformazioni urbane.
"Ho organizzato le “camminate di genere” come consigliera dell’Associazione Interessi Metropolitani, in collaborazione con le colleghe Cozza e Scaioli del Politecnico di Milano e con Umberto Nicolini di LabQus. Abbiamo deciso di avviare il progetto a Ponte Lambro. La camminata serve a fare emergere quali sono le criticità per le donne o per i gruppi marginalizzati: minoranze religiose e culturali, diversamente abili, bambini, anziani, ma anche donne in gravidanza. Vi è una parte attiva della camminata collettiva in cui i partecipanti si confrontano tra di loro e, poi, un momento di dialogo e restituzione in cui si delineano scenari di intervento".
Da dove nasce l’idea?
"L’idea di “camminare insieme” come pratica di appropriazione della città è nata agli inizi del Duemila, per celebrare Jane Jacobs. Da Toronto, le “Jane’s Walk” si sono diffuse nel mondo, è oggi un network mondiale. Nel caso di Milano, siamo partite dal format delle Jane’s Walk elaborando però un modello di camminata in cui il punto di vista femminile è privilegiato, nonostante il gruppo dei partecipanti sia misto".
I prossimi passi per considerare di più il punto di vista femminile nella progettazione?
"È il momento di strutturare un programma con i comitati e i laboratori di quartiere, a cadenza regolare, con un gruppo permanente di partecipanti che si impegnino a lavorare con noi dall’inizio alla fine del progetto. Dobbiamo arrivare al passo successivo per cui gli esiti di queste camminate vengano presentate alle istituzioni per cambiare il modo di raccontare la città e dare forma agli strumenti della pianificazione".
Come la costruzione della città esclude una donna a priori? "L’urbanistica risponde a un set di dati quantitativi raccolti sul territorio tramite questionari. I dati raccolti, però, spesso delineano il quadro di una popolazione maschile, bianca, eterosessuale, di ceto medio, buon livello di educazione. Questo porta a progettazioni che non rispondono alle esigenze delle donne, come sicurezza, accessibilità e servizi di cura. Per esempio, la sottorappresentazione delle donne nei dati di mobilità influenza negativamente la progettazione di trasporti pubblici sicuri e inclusivi. Correggere questa distorsione è cruciale".
Come variano le esigenze urbanistiche tra uomo e donna?
"Una città a misura di donna è una città che faciliti l’organizzazione complessa, in termini di tempistiche e spazialità, che caratterizza la giornata-tipo di molte donne, che garantisca l’accesso a servizi essenziali come scuole, supermercati e farmacie, riducendo la necessità di spostamenti lunghi e permettendo di svolgere le varie incombenze quotidiane in modo più efficiente. La mobilità sicura e l’accessibilità sono cruciali, con infrastrutture pedonali ben progettate e trasporti pubblici affidabili che permettano di conciliare lavoro e responsabilità familiari senza dipendere dall’auto".
Quali interventi ritiene necessari per Milano?
"La sicurezza è un tema chiave, non l’unico. Quel che emerge spesso è la necessità di garantire spazi percepiti come sicuri. Sappiamo, da donne, che passeggiare nelle ore di buio a Milano non è situazione che fa sentire a proprio agio. Attraverso azioni progettuali di facile implementazione, ad esempio un’illuminazione adeguata, piuttosto che evitare che esistano zone d’ombra in determinati percorsi, si aumenta il livello di sicurezza percepita. Il secondo tema è garantire totale accessibilità a chi ha capacità motoria ridotta o a chi porta con sé un passeggino, talvolta problematico da gestire tanto quanto una sedia a rotelle".
E perché non diversificare gli usi delle aree gioco dando centralità agli utenti femminili? "C’è un interessante progetto inglese - “Make space for girls”- che parte dal presupposto che le aree attrezzate, per gioco o sport, nei parchi ad esempio, sono pensate per un fruitore maschile. Lo dimostrano gli studi dei flussi per cui, negli spazi di gioco, i bambini raggiungono e si appropriano dello spazio centrale, hanno cioè una capacità di uso maggiore rispetto alle bambine, che spesso siedono ai bordi e assistono al gioco. Il gruppo di lavoro inglese ha ripensato agli spazi per dare centralità alle bambine. È emerso che alle bimbe piace molto arrampicarsi o avere aree gioco con usi flessibili, che agevolino la conversazione, o che consentano l’esplorazione dello spazio aperto o siano di supporto a pratiche creative. Credo che questo approccio funzionerebbe benissimo anche a Milano, senza dare centralità sempre al solito campo da calcio".