Milano – “Cosa direbbe papà adesso, a leggere i messaggi di affetto per lui? ‘Sono tutti matti, ho solo raccontato le vicende di 22 che correvano in mutande dietro a un pallone’”. Del resto “lui era così, ironico. Soprattutto verso se stesso”. Con stile. Garbo. Narratore romantico dello sport, del calcio, dei suoi eroi e delle sue emozioni. Anche se Bruno Pizzul “a casa era un po’ più silenzioso rispetto a come appariva nelle telecronache”. Fabio, docente, politico, giornalista, è uno dei tre figli della “voce della Nazionale”. E delle notti magiche di Italia 90. Ma “di calcio, in famiglia, si è sempre parlato poco”.

Però lo guardavate…
“Qualche giorno fa abbiamo sorriso insieme per la folle vicenda del rigore di Lucca tra Udinese e Lecce. Avesse dovuto fare la telecronaca, avrebbe evocato la disfida di Barletta tra gli attaccanti: “Sono cose che non si possono vedere, non vorrei essere nei panni di Lucca se sbaglia il rigore”. Avrebbe commentato così. Tra l’altro non ha mai smesso di fare il suo mestiere, fino all’ultimo ha scritto pezzi sull’Udinese. Perché da quando era tornato a vivere nel suo Friuli seguiva la ‘sua’ squadra”.
E il grande Torino?
“Da piccolo sì, era tifoso del Toro, ma, ci confessò, più per reazione contro il gruppo di ragazzini che aveva il pallone e non lo facevano giocare sempre. Loro erano juventini”.
Poi la professione lo ha portato a tifare per tutti e per nessuno. Nessuna simpatia, nemmeno tra Inter e Milan quando arrivò a Milano?
“Nessuna. Lui era legato più alle persone, ai giocatori. Ci raccontava che allora con i calciatori c’erano rapporti più umani, si facevano tornei di briscola e si giocava a biliardo. Un altro mondo”.

Allora erano i primi anni Settanta, quelli delle prime telecronache per la Rai.
“Papà si trasferì a Milano quando fu assunto dalla Rai. Ma lui era friulano. Punto. All’inizio a Milano si sentiva un po’ “prigioniero di guerra”, anche se poi qui ha trovato la sua dimensione e ha sempre rifiutato il trasferimento a Roma. In zona Sempione ha cresciuto la nostra famiglia, andava al lavoro in bicicletta, frequentava i locali come il Derby e i ristoranti di Milan e Inter, “L’assassino” per i rossoneri e le “Colline pistoiesi” per i nerazzurri”.
Ma nel suo Friuli è voluto comunque tornare, una casetta immersa nel verde di Cormons.
“Milano ti sorride se devi lavorarci, altrimenti è troppo frenetica. Papà aveva bisogno di ritrovare la lentezza e la qualità della vita. Ma soprattutto di ricongiungersi con la sua terra, i suoi amici, alcuni anche d’infanzia”.
Uno su tutti?
“Beh, sicuramente Dino Zoff, che tra l’altro è di Mariano del Friuli, proprio al confine con Cormons”.
Leggende dello sport. Che effetto le faceva, da bambino, vedere il papà in tivù, anche in mondovisione?
“Per noi era semplicemente papà. Noi lo abbiamo conosciuto così. E andando indietro nel tempo, ho dei ricordi flash di una televisione in bianco e nero con il Mondiale del 1970. Io avevo 5 anni, mi avevano detto che papà era laggiù, dall’altra parte del mondo".

Che ricordo sportivo di suo papà tiene nel cuore?
“Italia 90 senza dubbio. Soprattutto per l’affetto che lui aveva per quella squadra. Che lui considerava la più forte e che, invece, raccolse meno di quello che avrebbe meritato. Le immagini più dolorose, invece, sono ovviamente dell’Heysel. Era il 29 maggio del 1985, finale di Coppa dei Campioni. Papà era lì, raccontò quella tragedia, ma non ne ha mai parlato volentieri”.
Dall’album di famiglia, invece?
“Quando è nato il mio primo figlio, che poi era anche il suo primo nipote. In realtà è personale, ma anche sportivo. Io e mia moglie eravamo in sala parto, soli, durante il travaglio. Proprio in quel momento c’era Italia-Nigeria ai Mondiali del 1994 negli Stati Uniti, e noi sentivamo in sottofondo la voce del nonno che arrivava dalla televisione accesa nella stanza di medici e infermieri. L’Italia perdeva 1-0. Ma appena è nato Dario, abbiamo sentito che il risultato era stato ribaltato dalla voce del nonno. E avrebbe chiuso così, alla sua maniera: ‘È tutto molto bello’”.