MILANO – Ora il cadavere di Santo Stefano ha un nome. E non è un nome qualsiasi. L’uomo ucciso nel tardo pomeriggio dello scorso 26 dicembre in un’area isolata tra Pogliano Milanese, Arluno e Vanzago si chiamava Anas Khouja, trentunenne marocchino, ammanettato un anno e mezzo fa dai carabinieri del Nucleo Radiomobile al termine di un inseguimento mozzafiato: già all’epoca, un decreto di fermo della Procura di Varese tratteggiava il profilo di un “esponente di spicco del traffico di droga nei boschi dell’area prealpina”.
Una sorta di ras delle piazze di smercio al dettaglio. Il nordafricano non aveva documenti con sé, ma gli investigatori della Compagnia di Legnano e del Gruppo di Rho, coordinati dal pm Paolo Storari e dal tenente colonnello Emanuela Rocca, sono comunque riusciti ad arrivare a un’identificazione pressoché certa del corpo, segnalato da una telefonata anonima e ritrovato faccia a terra non lontano da Cascina Poglianasca.
Visto il curriculum del morto, che sarebbe stato colpito alla nuca nella zona isolata dell’hinterland nord-ovest, l’ambiente criminale scandagliato dalle indagini è quello dello spaccio di stupefacenti: l’ipotesi principale è quella del regolamento di conti tra bande rivali, in un contesto popolato da pusher che già nel recente passato ha dato prova della loro spietatezza. Stando ai primi accertamenti, il trentunenne sarebbe stato ucciso a colpi di fucile: le verifiche si stanno concentrando sui bossoli calibro 7.62 repertati dagli specialisti della Sezione investigazioni scientifiche di via Moscova.
Secondo quanto emerso, ci sarebbe anche un testimone, che conosceva la vittima: avrebbe dichiarato di essersi inoltrato nell’area boschiva insieme a Khouja, aggiungendo però di essersi allontanato dopo aver visto alcune persone armate che si stavano avvicinando. Come detto, il trentunenne marocchino, senza fissa dimora e con legami familiari a Napoli, era tutt’altro che sconosciuto alle banche dati delle forze dell’ordine. Alle 4 del 23 aprile 2023, una Volkswagen Passat con a bordo Khouja e il connazionale Youssef Alil si era imbattuta in un posto di controllo dei militari del Radiomobile in via San Giusto, a due passi dallo stadio Meazza.
Il conducente della berlina aveva saltato l’alt con un’accelerazione improvvisa e si era diretto verso la tangenziale Ovest; lì aveva effettuato una pericolosissima inversione di marcia e aveva percorso un tratto dell’autostrada A7 contromano fino a viale Famagosta. La folle corsa era terminata con uno schianto contro la rotonda di piazza Maggi, ma i due occupanti erano riusciti comunque a scendere e a fuggire a piedi, venendo arrestati dopo poche centinaia di metri con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale.
Solo in quel momento, gli investigatori avevano scoperto l’identità di Khouja e il motivo della fuga: qualche tempo prima, era riuscito a sottrarsi all’operazione Maghreb, un’imponente attività di perlustrazione dei boschi del Varesotto condotta dall’Arma, con il supporto dei Cacciatori di Calabria e Sardegna. L’allora ventinovenne era stato incastrato dalle testimonianze di alcuni tossicodipendenti, riportate nel provvedimento di fermo poi eseguito.