
Matteo Perego di Cremnago, 35 anni, ha rilanciato il marchio fondato dal suo avo Giuseppe Cambiaghi
Milano, 10 ottobre 2017 - Oggi non capita spesso di imbattersi in un uomo con il cappello, ma un tempo, al contrario, era assai raro vederne uno senza. Fra le due guerre mondiali la Cambiaghi di Monza, nata nel 1880, produceva 22 mila cappelli al giorno, aveva 1500 dipendenti, esportava in tutto il mondo. Era un’azienda modello e i suoi titolari erano imprenditori lungimiranti, moderni, col fiuto degli affari. Il fondatore, Giuseppe Cambiaghi, «il Sciur Pepp», come lo chiamavano i suoi dipendenti, da garzone di bottega diventò proprietario di una impresa all’avanguardia, gloria del Made in Italy di allora. Il successo durò fino al primo dopoguerra quando il cappello passò di moda. Nel 1949 calò il sipario su una splendida avventura imprenditoriale. Da qualche anno il glorioso marchio è rinato grazie a Matteo Perego di Cremnago, 35 anni, laurea in filosofia, esperienze all’estero come manager con la Giorgio Armani, che è il nipote di quarta generazione dell’illuminato fondatore dell’azienda. Oggi la Cambiaghi è cappelli ma non solo. È anche borse e accessori. Con uno stile che vuole essere inconfondibile, frutto di un giusto mix fra tradizione e innovazione, grande attenzione alla qualità del prodotto, estrema cura dei dettagli. Matteo Perego ci mostra, giustamente orgoglioso, alcuni ricordi della Cambiaghi di un tempo in bella mostra nell’atelier di via Borgonuovo 14: dalla pubblicità del 1926 sulla Pravda e su un quotidiano venezuelano alle preziose fodere personalizzate che il cliente poteva scegliere, dall’immagine aerea del grande stabilimento monzese a quella di tutti i dipendenti ordinatamente schierati per la foto ricordo (tutti con il cappello, ovviamente). «Mai avrei pensato di lavorare nella moda – dice Perego – ma la storia della mia famiglia mi è parsa talmente affascinante da meritare un rilancio del marchio».
Ma non aveva considerato che il mercato del cappello non era più quello dei suoi avi?
«Certamente. Proprio perché quello del cappello era ormai diventato un mercato di nicchia, era necessario introdurre un accessorio come le borse, adeguato alle esigenze del mercato di oggi. E comunque quello della pelletteria è un mondo che ho sempre amato, era una passione che già coltivavo».
Come riuscite a coniugare la tradizione con l’innovazione?
«Sono le nostre due parole chiave. Armonizzarle è un lavoro costante e quotidiano. La tradizione è un riferimento ma dal punto di vista del design questa è un’azienda proiettata nel futuro. Non dobbiamo mai dimenticare da dove veniamo, ne siamo consapevoli, abbiamo le nostre forti radici ma allo stesso tempo siamo un’azienda moderna, comunichiamo la contemporaneità».
Dove avviene la produzione?
«I cappelli sono fatti a Monza, ancora coi macchinari dell’epoca, le borse in Toscana con le pelli delle migliori concerie ma entrambi hanno in comune la stessa eccellenza artigianale».
Cos’hanno di speciale, di unico, di diverso dagli altri?
«Sulle borse il grande sforzo è in termini di design, l’esigenza è quella di dare una forte impronta, l’ultima collezione gioca con i colori della terra, un ritorno alla natura. Abbiamo due imperativi: qualità di prim’ordine e riconoscibilità del marchio».
E i cappelli?
«Con i cappelli abbiamo voluto svecchiare un accessorio che ricorda il passato, dargli un’identità forte, legata al presente».
Qual è il cappello più curioso?
«Sicuramente il cappello con lo specchietto all’interno, lo abbiamo chiamato “Vanity Mirror” e richiama quello che quasi un secolo fa la Cambiaghi realizzò appositamente per il re del Congo».