Milano, 12 settembre 2016 - Il camion era la loro vita. Ma poteva diventare anche la loro morte, o quella di chi li incrociava in autostrada. "Noi eravamo degli assassini – racconta un camionista al giudice – eravamo delle bombe vaganti perché non si può dormire due ore a notte per ogni settimana di cinque giorni lavorativi. Neanche un ragazzo di vent’anni lo può fare, a meno che non prenda delle sostanze stupefacenti". Eppure dentro ai camion guidavano con turni massacranti, anche fino a 20 ore al giorno. E poi lì dentro ci mangiavano, ci dormivano. E finita la settimana, usavano il mezzo anche per tornare nei paesi e nelle città dove abitavano, sempre alla guida. Altrimenti avrebbero dovuto pagarsi un albergo o un letto magari a mille chilometri di distanza da casa. Per mantenere questi ritmi folli erano costretti ad aggirare le leggi, che fissano tempi massimi al volante e riposi obbligati. E così il datore di lavoro preparava loro false lettere di vacanze mai fatte, da consegnare alla polizia stradale in caso di controlli. E appena assunti gli insegnava come infilarsi sotto il sotto il camion per piazzare nel cambio un piccolo magnete che mandava in tilt il tachigrafo: il tir risultava fermo, invece stava viaggiando. Potevano rifiutarsi, certo. Ma la minaccia costante era che avrebbero perso il lavoro e un buono stipendio. Negli anni passati, prima che anche ai camionisti italiani subentrassero romeni e moldavi, che si accontentano di molto meno, il prezzo della schiavitù poteva essere anche tremila euro al mese. È una sintesi dei racconti choc ascoltati dal giudice Emanuela Rossi nell’aula della settima sezione del tribunale nel processo per violenza privata e minacce a carico di G.P.V., titolare di un’azienda di autotrasporti tra Pozzuolo Martesana e Vignate, alle porte della metropoli. Tra uomini e donne, tutti ex dipendenti della ditta, hanno sfilato a testimoniare in una decina. Spesso, visti i ritmi impossibili di lavoro, per potersi almeno vedere marito e moglie viaggiavano sul camion insieme, alternandosi alla guida. Ma per poter essere sicuro che tutto andasse come doveva, V. aveva installato sui mezzi delle telecamere. «Ce n’erano una sulla destra e una sulla sinistra negli angoli del camion, rivolte una verso il volante e l’altra verso la sede del letto. Quindi non avevi privacy, non avevi... E poi si sentivano spesso e volentieri dei rumori di sottofondo, quindi non so se stavano ascoltando se io dicevo qualcosa a mia moglie – ha spiegato un teste – potevo dire una parola dolce... Le telecamere dovevano servire solo per la sorveglianza, ma io sono sicurissimo che ci osservavano mentre viaggiavamo». Il capo voleva essere certo che avessero messo la calamita, la “caramella” come la chiamava in gergo. «Lo poteva vedere anche dal suo ufficio, perché è collegato con il sistema satellitare della multimedia».
Cronaca"Noi camionisti, bombe umane sulle strade"