MARIO CONSANI
Cronaca

Quando il Lambro allagò il canile di via Aquila. "Colpa dei lavori lungo l’argine"

La Procura: usato materiale inadatto, quattro persone indagate

Uno dei cani del rifugio di via Aquila 81

Milano, 4 giugno 2016 - Solo per miracolo non fu una strage di animali. Prima una specie di diluvio universale che si riversò nel Lambro facendolo straripare. E poi un’alluvione devastante che invase le stanze e i box delle bestiole, gli uffici, l’ambulatorio e tutti i locali attigui raggiungendo un metro e ottanta di altezza e formando una pozzanghera immensa attorno al Parco canile rifugio comunale di via Aquila 81. Per gli addetti e i volontari fu fatica vera mettere in salvo tutti i 145 cani e i 150 gatti ospitati nella struttura. Era il 15 novembre 2014, giorno dell’esondazione del fiume. Ora, un anno e mezzo dopo, dalle acque sembra riemergere una verità ben diversa da quella della mezza catastrofe naturale. Per la Procura, se quella sera la corrente del Lambro sulla sponda destra superò l’argine che poi sarebbe addirittura crollato allagando non solo il canile ma anche l’antica località Molino della Composta, ciò non avvenne soltanto per la violenza delle precipitazioni ma anche per la sciagurata opera di uomini.

Se l'argine cedette - sostiene la magistratura - è perché nel corso dei lavori di realizzazione della centrale micro-idroelettrica sul Lambro, all’Ortica, nei mesi precedenti, un tratto di argine era stato "modificato senza autorizzazione per permettere la discesa di escavatori nell’alveo del fiume". Poi, finiti i lavori, "era stato ricostruito con materiali inidonei, non adeguatamente compattati e in assenza di massi ciclopici di protezione dai fenomeni erosivi derivanti dalle maggiori turbolenze determinate dalle acque di restituzione alla centrale". Chiuse le indagini, quattro sono le persone che rischiano il rinvio a giudizio con le accuse di inondazione colposa e abusi edilizi per aver contribuito, ciascuno con la propria condotta, a determinare - insieme alla violenza della natura - tutto ciò che avvenne quella sera. Si tratta dei vertici della due società - committente e appaltatrice - che realizzarono l’opera in difformità dal progetto approvato, insieme al direttore dei lavori e a un funzionario di Aipo, l’Agenzia interregionale per il fiume Po, che non avrebbe rilevato le carenze del piano da un punto di vista idraulico e avrebbe poi anche evitato qualunque tipo di controllo sui lavori e di verifica finale.

Per il magistrato, in particolare, l’amministratore unico di “Mei srl”, progettista dell’opera e committente dei lavori, non avrebbe previsto o disposto che dopo i lavori di escavazione l’argine venisse ricostruito come prima ed anzi più solido vista la maggiore vulnerabilità. Mentre l’amministratore unico di “Novastrade srl”, che eseguì i lavori, avrebbe agito in modo parzialmente difforme da quanto prevedeva il progetto a proposito dell’argine, ricostruendolo poi in modo del tutto inadatto. Il direttore dei lavori per conto della “Mei srl”, infine, potrebbe finire a processo «per aver disposto ovvero permesso e comunque non impedito» la realizzazione del muro di restituzione delle acque "con estensione e geometria difformi dal progetto autorizzato", realizzando o consentendo poi i lavori di rifacimento dell’argine del tutto insufficenti e inadeguati.