
Mario Capanna alla Statale di Milano fra i compagni del ’68 e gli studenti di oggi
Milano, 4 dicembre 2018 - «Formidabili quegli anni», scriveva Mario Capanna nel suo primo libro e canta oggi Roberto Vecchioni, ripensando al ’68. Si è aperto con queste strofe il ritorno alla Statale di uno dei protagonisti del movimento giovanile, invitato dagli studenti a presentare il suo ultimo libro, “Tutti noi”. A promuovere l’evento la lista UniSì dell’Università de gli Studi e il collettivo Udl della Cattolica, dove anche la contestazione di Capanna ebbe inizio.
Cos’è rimasto oggi di quegli “Anni Formidabili”?
«Innanzitutto il fatto stesso che se ne parli. Se si trattasse di un cadavere non saremmo qui a perdere tempo. Il ’68 c’è stato. È un dato di fatto. Da allora si sa che cambiare il mondo è possibile».
È tornato sul luogo del “delitto”, 50 anni dopo.
«Per me è una grande emozione. Non è tanto il luogo del delitto, anche se capisco la metafora, ma il luogo che fu l’università della democrazia, per gli studenti, per i docenti straordinari che sono stati educatori di generazioni, da Mario Dal Pra a Ludovico Geymonat, per migliaia di lavoratori. Tutta la Milano democratica e antifascista ha frequentato queste aule aiutandoci in mezzo a lotte straordinarie, a prese di coscienza, ai primi collegamenti fra studenti e neonati consigli di fabbrica. Quegli anni hanno lasciato qui un’ansia di libertà, di autodeterminazione e conoscenza».
Fra i banchi ci sono i compagni di allora e quelli di oggi. Due generazioni distanti?
«Tutt’altro. In questo Paese c’è un meraviglioso esercito, che è il volontariato, sia laico che cattolico, e se vediamo bene da chi è formato troviamo i giovani di oggi e quelli di ieri. C’è il ’68. E guardate questa aula, ci sono i giovani di allora che sono venuti da Parma, dal Piemonte, da tutta Italia, non per fare una sorta di “Come eravamo”, che non interessa a nessuno, ma per capire le lezioni del ’68 rispetto al presente e al futuro».
Lezioni contemporanee?
«Il ’68 è come un fenomeno carsico: in questi anni a volte le sue idee si sono inabissate, ma poi sono riemerse, si sono di nuovo inabissate e sono riemerse ancora, e oggi riemergono con grande forza e capacità propulsiva».
Però c’è un allontanamento dalla politica. Cosa dice ai giovani di oggi?
«La politica che chiamo con la “k” finale al posto della “c” giustamente provoca il loro distacco perché è finta, ridotta a simulazione, non tira fuori un ragno dal buco. Però l’unico antidoto alla politika è la politica, con la “c”. Occorre che i giovani e gli studenti si rimpossessino di quello che il ’68 ha indicato per tornare a essere protagonisti: quando le idee si mettono a camminare su milioni di giovani, di donne e di uomini si possono strappare conquiste straordinarie. È l’ora di ricominciare cercando di fare meglio di quanto facemmo prima. Citando Vecchioni: “Noi ci siamo fatti il culo, a voi tocca mostrare i denti”».
Venerdì ci sarà la Prima della Scala. Un altro luogo clou del suo ’68.
«Il mio cruccio è che a proposito della Scala si ricordi la storica contestazione e non la ragione di fondo per cui andammo lì: il 2 dicembre erano i 50 anni esatti dall’eccidio di Avola, in provincia di Siracusa, la polizia sparò addirittura raffiche di mitra su una manifestazione di braccianti che rivendicavano non la luna nel pozzo ma che venisse applicato il contratto firmato dagli agrari un anno prima e disapplicato. Uno studente issò un cartello: “I braccianti di Avola vi augurano buon divertimento”, un sarcasmo terribile ma giusto. Si noterà che avremmo potuto dire: “Ma che ci importa di questi fatti tragici avvenuti a mille chilometri di distanza da Milano?” Noi li vivemmo come se avessero sparato a noi. La cosa straordinaria del ’68 è che ogni ingiustizia che avviene nel mondo, chiunque colpisca, colpisce anche te. E quella stessa sera ho avuto conferme che a un poliziotto cominciò a frullare nella testa l’idea del sindacato di polizia».
Perché la Scala?
«Era il simbolo di quella borghesia straricca che era in qualche modo responsabile della fame dei braccianti e di migliaia di altri lavoratori. Le proteste da allora ci sono state ogni anno, con gruppi di lavoratori, disoccupati, un pochino più in sordina perché rispetto alla nostra mancò l’elemento sorpresa. Ma resta il simbolo, con l’ostentazione, i gioielli, le pellicce quando abbiamo 5 milioni di poveri da non dimenticare».
“Non siam quelli del rimorso”, canta Vecchioni. Capanna ha qualche rimorso?
«Io non ho pentimenti, sicuramente delle cose potevano essere fatte meglio, ma abbiamo cercato sempre di farle per bene. Non ho rimpianti, anche perché non vivo retrovolto ma guardo in avanti, guardo agli studenti. È bellissimo il fatto che con questi giovani si discuta dei grandi fatti di allora paragonandoli ai grandi problemi di oggi, e alla loro possibile soluzione».