ANDREA SPINELLI
Cronaca

Caparezza nella redazione de Il Giorno: "Niente selfie, parlate con me" / FOTO

Il rapper: non voglio far soldi ma tenermi la dignità

Caparezza nella redazione de Il Giorno

Milano, 7 settembre 2018 - Centotrentamila “prigionieri” sono circa un quinto della popolazione penitenziaria degli Stati Uniti. Tanti ne ha radunati, però, Caparezza nei 20 palasport-istituti di pena (18 dei quali esauriti fino all’ultimo posto) visitati col tour che passa ora in archivio tra i solchi di “Prisoner 709 Live”, l’album dal vivo di cui l’uomo del tunnel ha parlato ieri in redazione al Giorno, nell’attesa di presentarlo ai fan oggi alle 18 tra gli scaffali della Feltrinelli di piazza Piemonte.

Innanzitutto 7 o 9? Michele (sette lettere) o Caparezza (nove), chi è prigioniero di chi?

«Beh l’uno è sotto scacco dell’altro; e forse io sono lo zero centrale, quello che cerca l’equilibrio tra il 7 e il 9. Volevo raccontare in qualche modo il mio primo tour “sold-out” nei grandi palazzi dello sport e così ho scelto di farlo con questo “Prisoner 709 Live” che, oltre al disco in studio, a quello live, e al dvd “Trip709”, conta su un libro di foto, commenti, note a margine relative a questa esperienza».

Una cosa che Michele non sopporta di Caparezza e viceversa.

«Michele non sopporta di Capa tutto il tempo che gli toglie. D’altronde Michele ha avuto la malsana idea di mettersi in casa uno studio di registrazione e questo lo spinge a trasformarsi in Caparezza fin dalla mattina. Caparezza, invece, non sopporta che Michele si stia prendendo sempre più spazio, comprimendolo un po’. Ciascuno, comunque, apprezza l’ironia dell’altro».

Dieci anni dopo, ha deciso pure di far ristampare quella raccolta di vaticini che è stata nel 2008 “Saghe mentali” (con la a). Perché?

«Le numerose richieste di spiegazioni sui testi delle canzoni mi spinsero a scriverci sopra un libro. C’è da dire che alcune delle visioni distopiche contenute pure in “Le dimensioni del mio caos”, l’album uscito contemporaneamente al volume, poi si sono clamorosamente avverate. Parlavo, infatti, di partiti nati dal web che avrebbe preso il sopravvento, e della costruzione in Puglia di spazioporti per i viaggi nel cosmo».

Nel libro c’è pure la sua data di morte, il 2052.

«Dovendo scrivere nella quarta di copertina una mia biografia pensai di completarla indicando pure la data di morte. La cosa incredibile è che, se fosse quella vera, me ne andrei a 79 anni, confermando il gioco del 7 e del 9».

Ma il rapporto con il pubblico è mai diventato una prigione?

«No. Anzi, di solito a fine concerto mi fermo a parlare perché sono curioso di capire come la pensa la gente. Diventa una prigione sentirmi un Pokemon da catturare col cellulare anche da parte di chi non conosce il mio percorso, non ha mai comprato un mio disco e non è mai venuto ad un mio concerto. A chi mi segue do tutto quello che posso, ai curiosi no».

Non ha mai dato pezzi alla pubblicità. Perché?

«Una canzone è una canzone e utilizzarla per altri scopi mi sembra una denaturalizzazione dell’atto creativo. Ho studiato da art director e quindi la pubblicità la conosco, ma, da artista, non mi va di sfruttarla. Fare “i soldi” non m’interessa, mi sentirei in balia dei sensi di colpa per aver accettato qualcosa che non è nella mia indole».

Eppure quello è uno dei miti del rap.

«Il mito del rap è fare più soldi possibile per vendicare una condizione sociale, il mito di Caparezza, nipote di uno che non ha vissuto il disagio della periferia ma ha fatto la guerra, è quello di tenersi stretta la sua dignità».