Negri
rùta strìa“ (brutta strega) le dicevano quelli del cortile. Glielo dicevano tra i denti, ma poi ci ridevano su. Perché con gli anni dare della strega alla Rosabella era diventato un saluto quasi amabile. Anche la strega rideva. Ma era un riso acido, come a dire: “A tempo debito me la pagherete”. A noi bambini del cortile la Rosabella faceva un certo effetto, pareva ci guardasse con risentimento. Che fosse strega non avevamo dubbi. Aveva una faccia rugosa come un’arancia avvizzita, capelli di cenere spettinata, due spilli azzurri al posto degli occhi. Strega, proprio. Perché gli occhi della Rosabella cagliavano il latte ed erano molto più penetranti di quelli della fredda gastalda che sollecitava il pagamento degli affitti del cortile. La strega aveva un marito. Baffi ingialliti dal sigaro, forse una barba dello stesso colore. Quando alle medie, col primo Dante, ci imbatteremo in Caròn dimonio, ecco: complice Gustave Dorè, il traghettatore aveva proprio la faccia del marito della strega. Sulle attività infernali della Rosabella sapevamo, per racconti incrociati di nonne costernate, che lei, una notte, si era svegliata di soprassalto: ai piedi del letto c’era il diavolo, suo signore, che agitava catene in una nuvola di zolfo. “Da che parte sei entrato, mio primo amore?” doveva averle chiesto la Rosabella senza ottenere. E Caronte russava al suo fianco, sognando le mondine.
Sapevamo anche che un giorno, al fuoco del camino, Rosabella stava cucinando del risotto giallo nel quale a un certo punto, caduti dalla cappa, erano finiti due grossi scarafaggi; ma lei se n’era accorta quando ormai le povere blatte erano già cotte. Che fare? Niente: mormorando oscure cantilene, col cucchiaio aveva levato gli scarafaggi, rimestato il contenuto e servito il tutto all’ignaro marito. Il quale, attaccato il risotto con grande appetito, dopo le prime forchettate aveva socchiuso gli occhi e con aria ispirata aveva detto: “Rosabella, complimenti: questo risotto è proprio saporito. Ce n’è ancora, per caso?”.