REDAZIONE MILANO

Cinema d’essai, magia di pellicole

Solo tre hanno conservato il vecchio sistema analogico, le “pizze”

Amarcord Totò e Alfredo nel film «Nuovo Cinema Paradiso» di Giuseppe TornatoreMarco Molteni al cibnema BeltradeMarcello Seregni dello Spazio Oberdan

di ANNAMARIA LAZZARI

– MILANO –

SONO PASSATI QUATTRO ANNI da quando si è detto addio alle «pizze» cinematografiche: il cosiddetto «switch off» digitale. La normativa aveva fissato a gennaio 2014 l’obbligo di digitalizzare tutte le sale italiane, poi prorogato a giugno di quello stesso anno. Allora la maggior parte dei cinema, anche a Milano, si è liberata dei dispositivi analogici su cui scorreva la pellicola in 35 mm. Primo perché, nella nuova era dove i film viaggiano sul supporto digitale, erano un orpello inutile. Inoltre, nelle cabine di proiezione, luoghi angusti per quanto affascinanti, c’è spazio solo per un proiettore: ed è quello digitale di ultima generazione capace di leggere il file che racchiude il film.

TRE CINEMA A MILANO, TUTTI D’ESSAI, hanno però deciso di conservare i loro proiettori analogici e non per nostalgia: sono tuttora in funzione. Sono il Mexico di via Savona 57, lo Spazio Oberdan della Fondazione Cineteca Italiana, in viale Vittorio Veneto al 2, e il Beltrade di via Oxilia 10, a Pasteur. Allo Spazio Oberdan sono presenti due dispositivi anni ’80 firmati da Cinemeccanica, gloriosa impresa che produce proiettori, nata a Milano nel lontano 1920. Sono Victoria 5 e Victoria 8: quest’ultima legge anche la pellicola in 70 mm ed entrambe sono capaci di modulare la cadenza di proiezione, dalla velocità standard di 24 fotogrammi al secondo ai 16/18. «Così possiamo proiettare anche i film muti» dice Marcello Seregni.

Trentatré anni, una laurea al Dams di Bologna e una specializzazione tra Udine e Parigi, alla Fondazione è da 7 anni come archivista e proiezionista. «Il mio lavoro in sala di proiezione è complementare a quello di preservazione delle pellicole. Sono io, per così dire, quello che rovina la bobina che, a differenza del digitale, subisce usura ad ogni passaggio in macchina. Ma allo stesso tempo sono colui che la sistema». Il lavoro in cabina non è una passeggiata. Prevede una prima fase di verifica della bobina sulla «passafilm» e di montaggio con la giuntatrice Catozzo.

DOPODICHÉ LA PELLICOLA passa in macchina, dove scorre attraverso un ginepraio di rocchetti. C’è anche da decidere, a seconda del formato, il mascherino da mettere sulla lente e l’obiettivo. Durante la visione bisogna stare a fianco del proiettore, controllare che la lampada sia a posto, che le giunte tengano… Seregni non si lamenta: «Nel sistema digitale, l’immagine, composta da pixel, è più fredda. La pellicola, che è un’emulsione chimica e organica, è «viva»: la grana nel digitale non esiste. La visione e la resa dunque è diversa». Parla di «magia della pellicola» anche Marco Molteni, 38 anni, proiezionista da 7 al cinema Beltrade di via Oxilia, dove è tuttora presente una Victoria 5, usata però solo poche volte l’anno (come alla maratona l’anno scorso su Jim Jarmush).

Ha soprattutto a che fare col proiettore digitale: «Il film arriva al cinema su hard disk o via satellite. Il passaggio più importante è sbloccare il file inserendo una password. È un lavoro più da informatico».