
Martina Levato
Milano, 27 maggio 2019 - «Non ci sono giustificazioni per quel che è successo, che è gravissimo: tornando indietro non lo rifarei». Così Martina Levato è tornata a parlare delle aggressioni con l’acido, messe in atto nel 2014 con l’amante Alexander Boettcher, che le sono costate una condanna definitiva a 19 anni e 6 mesi di reclusione. Aggressioni, ha aggiunto, nate «in realtà da una fragilità, dall’aver creduto in un amore malato: chiedere aiuto è quel che ci può salvare e che io non sono riuscita a fare, sono finita in un vicolo cieco». Di quegli assalti premeditati hanno fatto purtroppo le spese Pietro Barbini, ex compagno di scuola della ragazza, e Stefano Savi per uno scambio di persona, sfregiati in maniera permanente; senza dimenticare l’agguato, fallito, al fotografo Giuliano Carparelli. Nell’intervista rilasciata al Tg2, la donna, detenuta a San Vittore, ha anche lanciato un appello affinché i giudici le diano la possibilità di mantenere i contatti con il figlio Achille, nato il giorno di Ferragosto del 2015 e dato in adozione poco più di un anno fa al termine di una lunga battaglia legale che ha visto coinvolti anche i genitori dei due condannati.
«Quando è nato– ha detto la donna – mi ha fatto capire cosa era il vero amore per un figlio, che è l’amore più bello». E ancora: «Io sono stata portata a partorire in un ospedale che non era quello a cui ero destinata. Mi hanno sedato in modo che non potessi nemmeno vedere la faccia di mio figlio appena nato. Nessuno mi rispondeva e un medico mi disse che c’era un decreto di adottabilità immediata. Non lo auguro a nessuno, non mi capacito di questa cosa. Ho chiesto ai giudici di mantenere anche un minimo contatto con Achille. Sono consapevole che devo scontare la mia carcerazione, ma vorrebbe dire tanto. Non ho mai smesso di lottare per lui. Non l’ho mai abbandonato».
Per chi non lo ricordi, nel gennaio 2018, la Cassazione ha confermato l’adottabilità del bambino (fino a quel momento in pre-affido a una famiglia), sancita sia in primo che in secondo grado, respingendo i ricorsi presentati dalla Levato e dai suoi genitori e la richiesta del procuratore generale presso la Suprema Corte Francesca Ceriani di affidarlo proprio ai nonni materni. In particolare, gli ermellini hanno richiamato il principio secondo il quale «la prioritaria esigenza del figlio di vivere nell’ambito della propria famiglia di origine può essere sacrificata in presenza di pregiudizio grave e non transeunte per un equilibrato e armonioso sviluppo della sua personalità». Principio, secondo i giudici, rispettato dalla sentenza d’Appello, che ha confermato l’adottabilità e valutato «sia i gravissimi comportamenti delittuosi posti in essere dalla Levato, con in grembo il piccolo», sia «le anomalie del carattere e della personalità della madre (oltre che del padre), sebbene non integranti patologie psichiatriche definite». E lei, così come lui, non è stata ritenuta in grado di «garantire al bambino uno sviluppo psicofisico sereno ed equilibrato negli anni più delicati per la sua crescita».