Milano 18 marzo 2019 - Se la vita di Najla è cambiata, se la bambina diventata (suo malgrado) adulta troppo in fretta può guardare con fiducia al futuro sperando di dimenticare le sofferenze del passato, molti meriti sono della Bracco Atletica, la storica società sportiva milanese che per prima ha accolto a braccia aperte quella ragazzina entusiasta e con tanti sogni nel borsone. Franco Angelotti, presidente del sodalizio meneghino, è un po’ l’angelo custode di Najla e si è dato tanto da fare quando la burocrazia rischiava di ricacciare nell’incubo la giovane libica: «L’ho conosciuta quando era piccola, come atleta era una promessa - racconta Angelotti -. Poi è arrivato il momento difficile, situazioni terribili. Quando le è scaduto il permesso di soggiorno ci siamo preoccupati di trovare una soluzione che non fosse provvisoria. Najla era sola, aveva bisogno di un documento ma pure di una casa dove sentirsi sicura. Lei ha ritrovato la serenità noi l’atleta». La Bracco ed il suo presidente continuano ad essere un’ala protettiva: «Da quando a Jesolo si spaventò per la presenza della madre che sembrava avesse con sé dell’acido, cerchiamo di proteggerla ancora di più - spiega Angelotti -. Ha chiuso i profili sui “social”. Io per primo le ho vietato di andare in Kenya per uno stage di allenamento con la multinazionale che rappresenta. Se dovesse recarsi in Africa c’è il rischio che non torni più...»
«Mi raccomando, è vero che nella mia vita ho visto di tutto, ma proprio di tutto, però non mi descriva in un articolo “strappalacrime”. Io ora mi sento rinata e sono piena di positività, e voglio trasmettere un messaggio di speranza, che ripeto nelle scuole: se ce l’ho fatta io, possiamo farcela tutti». La carica, l’energia e l’ottimismo di Najla Aqdeir sono davvero contagiose. Perché dopo tutto quel che la mezzofondista di 23 anni (tesserata per la Bracco Atletica) nata in Libia ha vissuto sulla propria pelle, è già un mezzo miracolo che sia qui a raccontarci tutto. Col sorriso stampato sulle labbra. Da quando, nel 2005, si trasferì in Italia con la sua famiglia alla ricerca di un futuro migliore, ha pianto, sperato, sofferto e avuto paura. Dopo castighi, umiliazioni, violenze, minacce, il disprezzo della sua famiglia, adesso si sente libera.
Vive da rifugiata politica a Milano, grazie ad un permesso di soggiorno “sussidiario” valido per 5 anni («serve a proteggermi, così nessuno può venire a prendermi e riportarmi in Libia, dove c’è una fatwa che mi condanna a morte»), con la speranza, fra diciotto mesi, «di diventare cittadina italiana». E allontanare per sempre dalla sua mente quell’incubo che la perseguita dal 2010, ovvero da quando, adolescente di 16 anni, fu portata dalla madre in Marocco per farle sposare un uomo molto più grande di lei. «Ma io dissi no, quel matrimonio combinato non lo volevo, perciò chiamai il mio allenatore e tornai in Italia. Volevo parlare con mio padre, speravo mi comprendesse, gli avrei detto che magari avrei sposato un uomo libico per farlo felice. E invece...».
E invece da quel momento cominciò l’inferno, perché quando rientrò la mamma rivelò al marito il fidanzamento della figlia con un ragazzo italiano e di religione cristiana, Najla finì sull’orlo del baratro: niente scuola, niente oratorio, niente uscite e niente allenamenti. «Il fatto che corressi in mutande non andava giù a mio padre, ma io posso anche capirlo... Mi faceva pena ma anche tenerezza, era la sua cultura che lo spingeva a dire quelle cose».
La convivenza fra le mura domestiche diventò impssibile anche se non era facile denunciare senza prove: Najla andò via di casa, finì in una comunità protetta prima di avere un proprio tetto sotto cui dormire, senza però il passaporto che le fu tolto dal consolato libico. Lo sport, la corsa, erano sempre la medicina migliore nei momenti più bui. Fu il suo allenatore a salvarla. «Poi un giorno, mentre ero ad allenarmi all’Arena Civica, mi fissai su una gara di 400 ostacoli: un lampo mi accese la mente, capii che gli ostacoli non vanno saltati, ma affrontati e superati. Quello è diventato il mantra della mia vita». E siccome stava scadendo il permesso di soggiorno, ecco la svolta: «Chiesi asilo politico all’Italia, anche se sapevo bene di non essere arrivata col barcone. Ma dovevo farlo, perché dopo più di dieci anni nel vostro Paese mi sentivo italiana. E non volevo perdere quell’ultima possibilità per salvarmi».
Quella debordante voglia di vivere le ha dato una forza immensa. Mattone dopo mattone Najla si è costruita un futuro con basi solide. Perché a Milano non è solo passata dagli 800 metri ai 3000 siepi. «In questi anni mi sono data delle regole e ho fatto davvero di tutto: gestione di un bar, commessa, baby sitter, interprete (per il suo presidente Angelotti parla meglio l’italiano dell’arabo), modella ed ora la testimonial per una grande multinazionale di abbigliamento sportivo. Vado nelle scuole a spiegare quel che ruota attorno allo sport».
A proposito, e l’atletica? «Continuo, ci mancherebbe. Certo, qualche delusione l’ho avuta (lo scorso anno la Gran Bretagna le vietò il visto per la Coppa europa per club, ndr) e pure qualche spavento (ai campionati societari di Jesolo la mamma tentò di avvicinarsi, pare, per buttarle contro dell’acido), però otto allenamenti alla settimana li faccio tutti. Con un sogno nel cassetto: provare ad andare alle prossime Olimpiadi con un’eventuale nazionale dei “rifugiati”, altrimenti aspetterò. Correrò più forte e magari prima o poi mi porterà l’Italia per meriti sportivi...»