Elena
D’Incerti*
I banchi sono disposti in fila indiana secondo il copione che si ripete da decenni. Il caldo si profila minaccioso, ma ai ragazzi stamattina interessa poco: il testo di Seneca, che per i prof non presenta trappole apparenti se non qualche accortezza nell’uso del lessico, li spaventa decisamente di più. Il filosofo latino mette in guardia suo amico Lucilio dalla tentazione di ostentare lusso e ricchezza: godimenti fini a se stessi che richiedono pubblico e palcoscenico preferibilmente cittadini, quando invece la solitudine e la vita in campagna sarebbero un toccasana per molti mali dell’anima.
Quanta moderna verità in queste parole. Neanche di questo gli studenti si accorgono, impegnati come sono nella loro lotta con i congiuntivi, con le parole che, guarda un po’, sembrano sparite dai dizionari proprio stamattina, e con il senso complessivo del testo che, tolti i “secchioni“, per tutti traballa.
Oltre alla traduzione ci sono tre domande, semplici, conformi al programma, ritagliate perfettamente su Seneca che è l’autore che tutti si aspettano e che esce quasi tutti gli anni. Per guizzi filologici non c’è spazio, meno che mai per attualizzazioni o confronti con altre culture. Quasi tutti i ragazzi nel corso della prova alzano timidamente la mano per chiedere un aiutino ("posso"?) o un chiarimento; in realtà cercano la chiave di volta per una versione che - sarà anche l’ultima della loro vita – desidererebbero consegnare almeno dignitosa. I loro prof interni sono più generosi, noi esterni in questo gioco delle parti che è la maturità, ci aggiriamo più trattenuti dispensando chi un sorriso chi un’indicazione lessicale. Su Internet la traduzione è in rete dopo dieci minuti. Probabilmente la fornisce anche su Chatgpt e io sono molto, molto curiosa di leggerla.
* Docente liceo classico Beccaria e commissaria
esterna al Tito Livio