
Carlo
Danelon*
Mi sia concesso, per fugare un senso di insincera nostalgia, di parlar nel tono un po’ drammatico cui condanna la stanchezza. Oggi i maturandi si dimenano nell’inquietudine di un passaggio stretto, dove la vastità dell’ignoto si conquista con poche, decisive virate – nella speranza di non finire come la Ever Given nel canale di Suez. La nostra "piccioletta barca", strattonata da tumultuosi flutti di notizie e carte, si dirige verso l’acqua da cui un giorno spera di essere cullata, tra i sogni di ricchezza e le piume di una bohème segretamente immaginata. Dove si vada, questo non è affatto chiaro: dove l’acqua porti, in fondo, non si sa. Ne derivano l’ansia dell’ignoto e una fitta serie di ipocondrie. Ma è diffuso il sentimento del varco: c’è una svolta, al di là della famigerata terza parte dell’esame; s’apre una nuova alba, dopo il turno di quell’odiosamata lettera con cui sei incastonato nell’appello; c’è già una nuova brezza nelle vacanze di una classe sfilacciata dalla pandemia come l’infanzia dalla giovinezza. Ma c’è molta aria! E sotto la vernice di uno scenario romantico, ognuno è un alto viandante sul ciglio del proprio nebbioso futuro. Allora il liceo sembra soltanto una grande stanza, al termine della quale si erge, imponente, una scelta. Talvolta, nascosto dietro di essa, sorrido incredulo della nobiltà delle nostre prospettive. Medici, letterati, filosofi, magistrati, attori. Ogni cosa si ridimensiona, quando l’hai a portata di mano, allorché la intravedi proprio qui, a un passo. Così l’università, il lavoro: enormità subito dietro il microscopico fazzoletto di un "elaborato" che, per principio e per lunghezza, si colloca tra il sublime e il farsesco, tra la vela per solcare il mare e la carta per soffiarsi il naso.
*Maturando del liceo
classico Carducci