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Dario Vergassola: Milano mi ha curato l’ansia. Sono arrivato marinaio e mi son scoperto comico

Da manovale al porto di La Spezia inseguendo la mania del cabaret. Il primo viaggio per Milano? "Presi 30 gocce di Lexotan" di MASSIMILIANO CHIAVARONE

Dario Vergassola in via Venini

Milano, 25 ottobre 2015 - «Milano mi ha fatto vincere l’ansia». Lo racconta l’attore Dario Vergassola. «È stata terapeutica, meglio che andare dall’analista. Mi ha fatto risparmiare un sacco di soldi e mi ha fatto iniziare una nuova vita».

Ecco che la sua anima ligure si rivela senza sforzo quando si tocca il capitolo “spese“. «Ma no, è che mi viene in mente quando venni a Milano in auto nei primi anni ‘90, con la mia 127 grigia insieme al mio amico Michele Tognetti che faceva il centralinista. Presi 30 gocce di Lexotan al solo pensiero di dover attraversare il Passo della Cisa ma quando entrai in auto l’ansia aumentò e ne presi altre 5».

Il motivo del viaggio? «Venimmo per vedere Maurizio Milani allo Zelig. Mi era scoppiata la smania del cabaret dopo aver visto Paolo Rossi e David Riondino in scena a La Spezia. Avevo circa 30 anni».

E fino ad allora cosa faceva? «Il marinaio di coperta all’Arsenale militare di La Spezia. E pensare che al militare ero stato riformato per insufficienza toracica. Quel posto me l’ero aggiudicato a 25 anni superando un concorso per manovale. Ho il diploma di perito navalmeccanico».

È stato lo spettacolo ad attrarla a Milano? «In un certo senso sì. La mia prima volta a Milano risale a quando avevo 13 anni per fare gli esami di solfeggio. Prendevo lezioni di chitarra da un maestro ligure che lavorava anche per un istituto musicale di Milano. Questa scuola milanese organizzava anche esami interni che preparavano a quelli del Conservatorio. A Milano fui ospitato da mia cugina Titti che viveva qui con suo marito. I miei esami andarono bene anche se mi rimase un po’ di amaro in bocca: c’era troppa nebbia e non riuscii a vedere il Duomo».

Ma poi la nebbia si è diradata insieme all’ansia? «Sì, quando decisi di fare sul serio nello spettacolo. Feci i provini a Zelig. Salii sul palco raccontando la mia vita come se fossi dallo psicologo. Riuscii a convincere Gino & Michele».

E poi cosa accadde? «Mi invitarono a partecipare alle serate con Claudio Bisio e il mio adorato Maurizio Milani. Poi vinsi il festival di Sanscemo nel 1992 e conobbi Giorgio Gaber al Festival del Cabaret che Gino & Michele organizzarono a Venezia».

Come andò con Gaber? «Era un uomo schivo, molto timido, ma mi incoraggiò, mi disse che si divertiva con i miei monologhi. Una volta alla Spezia fui preso d’assalto dai colleghi, ma loro volevano sapere solo se c’era la gnocca».

La via milanese che preferisce?  «Via Venini. Al 57 ci ho vissuto per molto tempo. Ci abitava mia cugina che mi ospitava. Perché dopo aver mollato l’Arsenale militare, mi ero trasferito a Milano per lavorare a Zelig e altrove. Ho cominciato a fare tante serate arrivando a percorrere anche 80 mila chilometri all’anno. Sempre in auto, ma senza più Lexotan. Milano restava la mia base. Anzi il mio paesino Venini».

Ma non è una strada? «Sì, ma sembra un piccolo centro all’interno della città. È una via a dimensione famigliare. Era piena di emigrati da diverse regioni d’Italia. Si sentivano tanti accenti. E si vedevano spesso le stesse persone. Per esempio le facce che incontravo in pizzeria me le ritrovavo al bar che bevevano il caffè. Un microcosmo a cui mi ero attaccato. Ma io mi sono sempre sentito un miracolato».

Perché? «Ero venuto qui come un cabarettista cazzaro e un po’ ansiogeno e poi ho scoperto che non ero qui per ritornare a fare il manovale e che invece potevo dedicarmi a quello che mi piaceva. Ci avevo pensato una volta che giocavo a biliardino con Paolo Rossi a Milano, in fondo vedendo lui in scena mi era venuta voglia di fare il suo lavoro».

E aveva visto giusto? «Sì, grazie a Milano che ha operato un cambiamento epocale nella mia vita. Tutta la mia famiglia è legata a questa città e mia figlia Caterina ci ha anche studiato e si è laureata in Relazioni pubbliche».

Insomma per lei Milano è? «Un grande centro pieno di piccoli dettagli. Penso ai particolari dei palazzi, i balconcini in ferro battuto, le ringhiere o le piccole porte che si aprono su grandi giardini. Può essere una metafora della vita: mai fermarsi all’apparenza, ma andare oltre. È lì che trovi l’unicità delle cose». di Massimiliano Chiavarone mchiavarone@gmail.com