
L’attrice Debora Caprioglio, nata a Venezia, è stata «adottata» da Milano (Newpres)
Milano, 22 febbraio 2015 - «Milano è la città del coraggio. Di chi ha visto in me cose che altri non riescono a vedere». Lo racconta l’attrice Debora Caprioglio.
Cosa vuol dire?
«Questa città mi ha dato una mano a togliermi l’etichetta di attrice sexy dei miei esordi e mi ha sostenuta nell’intraprendere con serietà e impegno il percorso di attrice».
Una dichiarazione impegnativa. Ma a Milano è stata anche da bambina?
«Certo, anzi è qui che mi sono avvicinata al teatro. Grazie a mia zia, Elda Fabbri, sorella di mia madre. Zia Elda viveva a Milano, in via Bellini, era un mezzosoprano. Dopo le nozze, aveva continuato a studiare e a esibirsi. Anche mia madre Augusta cantava e di tanto in tanto, quando ero ancora piccola, mi portava a Milano per fare visita alla zia. Ogni volta che la rivedevo era come assistere a un’apparizione: mia zia si vestiva e si truccava come la Callas, era alta, dai gesti maestosi, un po’ teatrali, mi piaceva molto. Mi appagava un po’ meno assistere alle sue lezioni di canto, in cui dovevo sorbirmi ore di vocalizzi. E spesso, capitava che anche mia madre si mettesse a cantare e fare esercizi per la voce».
Insomma non vedeva l’ora di fuggire?
«L’insofferenza passava appena uscivamo dall’abitazione dell’insegnante. A mettermi allegria erano le passeggiate, soprattutto in San Babila».
È la zona di Milano che preferisce?
«Sì, da bambina per l’amabile confusione che osservavo con l’andirivieni continuo di persone tra i negozi e i teatri. Da adulta perché questo quartiere per me significa il debutto a teatro con la “Lulu”. Era il 1991, la mia prima volta sulle tavole del palcoscenico. Approdai al teatro Nuovo con il testo di Wedekind messo in scena da Tinto Brass. Fu un successo. E tra il pubblico c’era anche la zia Elda che corse ad applaudirmi. Milano ci portò fortuna, perché piovvero così tante richieste che prolungammo la tournée di sei mesi».
L’avrebbe mai pensato che nella piazza in cui passeggiava da bambina sarebbe tornata da attrice?
«Da piccola sognavo di fare qualcosa di artistico, anche se non sapevo ancora dove indirizzarmi. Piazza San Babila per me è una piccola Broadway, è la piazza dei signori del teatro, dei maestri. Qui sono passati tutti i più grandi e i loro nomi hanno troneggiato su manifesti e locandine. A Milano ho anche recitato con mio marito Angelo Maresca in una pièce di Feydeau».
Perché Milano è la città del coraggio?
«Lo dico pensando alla mia carriera. La mia interpretazione in “Paprika” di Tinto Brass rischiava di limitarmi a un genere soft erotico che volevo scrollarmi di dosso. Invece sempre nel 1991 venni a Milano per alcune conduzioni televisive che mi diedero una popolarità nuova e più giusta per quello che stavo cercando. Ecco il coraggio di vedere cose in te che altri non vedono. Questo mi è capitato a Milano. Come conseguenza anche altri registi hanno cominciato a pensarmi in ruoli diversi che necessitavano di impegno e scavo interiore come mi è capitato nelle pellicole di Ugo Chiti e Francesca Archibugi».
Quando viene a Milano cosa fa?
«Ci vengo spesso per lavoro, ma non trascuro la vita culturale per esempio visitando musei e mostre. Questa città è internazionale, quando ci torno avverto di essere in Europa più che in Italia».
E con Klaus Kinski venne mai a Milano?
«No purtroppo, anche se a lui piaceva molto. Non ci capitò mai. Durante la nostra relazione che durò tre anni, vivemmo a lungo a Roma, oppure ci spostavamo per andare a New York. Lui mi ha insegnato molto, innanzitutto la serietà e il rigore sul lavoro».
Ci sono talenti milanesi che l’hanno ispirata?
«Sì, tre grandi colleghi: Ivana Monti, Franco Branciaroli e Mariangela Melato. Con i primi due ci ho anche lavorato. Mariangela invece l’ho frequentata come amica a Roma. Ma il tratto comune che mi hanno trasmesso è la concretezza lombarda che ti fa andare avanti anche quando ti sembra che tutto stia crollando».
di Massimiliano Chiavarone
mchiavarone@yahoo.it