ANDREA MORLEO
Cronaca

Dalla Ostia di Pasolini alla Milano dei maranza: 50 anni di “Storie bastarde” firmati da Davide Desario

Il libro del direttore di Adnkronos propone un’attualissima riflessione sulle periferie di ieri e oggi. “Ho raccontato la periferia romana come l’ho vissuta negli anni ‘70 ma in fondo, se lo decontestualizzi, il libro parla di storie senza tempo”

Da sinistra Franco Gabrielli, Francesca Nanni e Davide Desario al Piccolo Teatro Grassi

Da sinistra Franco Gabrielli, Francesca Nanni e Davide Desario al Piccolo Teatro Grassi

Dalla Ostia anni ‘70 dell’omicidio Pasolini e della banda della Magliana alla Milano 2025, quella della rivolta del Corvetto e dei maranza che imperversano in una città sempre più invivibile.

Mezzo secolo di periferia italiana condensati in una chiacchierata con Davide Desario, direttore di Adnkronos e autore di “Storie Bastarde” (prefazione di Francesca Fagnani) presentato nei giorni scorsi al Piccolo Teatro Grassi in un incontro a cui hanno partecipato anche Francesca Nanni, procuratore generale alla Corte d’Appello di Milano e Franco Gabrielli, ex numero della polizia e oggi professore associato all’Università Bocconi. 

Il libro e il suo autore, Davide Desario
Il libro e il suo autore, Davide Desario

Cosa l’ha spinta a condividere le storie della sua infanzia in un libro a metà strada tra il Pasolini di “Ragazzi di vita” e “Fattacci” di Cerami?

"Ho voluto raccontare la periferia dalla prospettiva degli adolescenti dell’epoca, che non è quella della fiction. Racconto la periferia romana come l’abbiamo vissuta io e i miei coetanei ma in fondo, se lo decontestualizzi, il libro racconta storie senza tempo di qualsiasi periferia italiana: l’amicizia, la solidarietà e la famiglia ma anche criminalità, droga, condomini e degrado”. 

Ci fa un condensato di quel periodo?

"Posso dirle, ad esempio, che il mio migliore amico è stato condannato a 15 anni per traffico internazionale di stupefacenti e per anni abbiamo condiviso motorino, campi da tennis e il tasto del flipper.  Dove sono cresciuto io hanno girato “Amore tossico” ma quell’Italia ipocrita e bacchettona allora faceva finta di nulla mentre una generazione è stata falcidiata dalla droga. E ripeto: in quegli anni lo stesso è accaduto allo Zen, a Tor Bella Monaca, Scampia o Quarto Oggiaro ”. 

Una curiosità: perché lei non è finito nei giri sbagliati?

“I miei genitori hanno sempre rappresentato i vertici di un recinto che ha saputo proteggermi senza mai opprimermi: l'esempio è stato fondante. Poi tanta, tantissima fortuna”.

Ci fa un ritratto del giovane Davide Desario e della sua famiglia ?

“Sono cresciuto in una famiglia borghese: mamma professoressa di italiano, papà alto dirigente di Banca d’Italia e due fratelli molto maggiori di me. In casa tutti hanno sempre raccontato le loro storie di vita con grande eloquio mentre quelle del piccolo di casa, ancora acerbo, nessuno le voleva sentire. I miei esami, le mie avventure non interessavano agli altri della famiglia, che quelle esperienze le avevano già vissute. Da quella frustrazione forse è nata la mia voglia di riscatto, di raccontare storie”.

Una voglia di rivincita che poi si è trasformata anche in un mestiere...

“Anche dietro la scelta di fare il giornalista in fondo c’è la voglia di rivalsa, in questo caso nei confronti di una prof con cui al liceo avevo un pessimo rapporto. Un giorno le dissi che mi sarei guadagnato da vivere con la scrittura come reazione all’ennesima critica. E così è stato”.

Che differenze ci sono tra le periferie quegli anni e quelle di oggi?

"Noi ragazzini di Ostia toccavamo con mano la violenza, che allora era ancora più forte: le sparatorie erano pane quotidiano, tossici e droga erano ovunque. In noi giovani di allora c’era anche maggiore coscienza, era ben chiara la differenza tra lecito e illecito, tra vita e morte. Oggi i social invece rendono questo confine molto meno chiaro”.

Lo ha raccontato anche il procuratore generale Nanni nell’incontro al Piccolo Teatro Grassi.

“Oggi i social fanno percepire una realtà distorta ai ragazzi. In molti casi si sentono protagonisti di un grande videogioco, come se una volta commesso un fatto che va oltre la legalità si possa spegnere la consolle e tutto ritorna come prima. I ragazzi fanno fatica a capire che se dai una coltellata, rischi di uccidere e che se corri a folle velocità in auto, puoi anche morire. E lì non si torna più indietro”.

Insomma, si avverte un pericoloso abbassamento della percezione tra realtà e finzione?

“Durante l’incontro è emerso che nelle grandi città ad esempio si assiste a una crescita esponenziale delle rapine in strada, quelle che creano anche maggiore allarme sociale e insicurezza nella popolazione. Molto spesso sono giovani o bande di giovani che usano una violenza gratuita, le cui conseguenze non sono del tutto percepite”.

La cronaca ci racconta che spirito di emulazione e amplificazione sono altre due pericolose conseguenze di questo mondo deformato dai social.

“I ragazzi galleggiano in una realtà deformata in cui la commissione di un crimine non dà completa soddisfazione se non condivisa con gli amici: sono i social a legittimare e dare in qualche modo la patente di veridicità. Tutto questo porta a un’inevitabile corsa all’emulazione, a un continuo innalzamento dell’asticella dell’illegalità ma anche a un’amplificazione dei fatti stessi. Un esempio evidente è quanto accaduto dopo la morte del ragazzo nell’inseguimento al Corvetto: i social hanno fatto da cassa da risonanza, contribuendo a diffondere la rabbia nel quartiere nei giorni successivi”.

Il narcisismo social di questi giovani criminali ha però anche un risvolto positivo, no?

"La necessità di condivisione è molto spesso un prezioso aiuto nelle indagini: il post si trasforma in una prova “provata” della commissione del reato stesso, è un’auto-confessione spesso molto utile. Un grosso aiuto alle indagini oggi lo danno anche le immagini delle molte telecamere presenti nelle città, strumento che non esisteva affatto all’epoca di Ostia dove invece le fonti erano soprattutto gli informatori”.

La ricetta per salvare le periferie?

“In troppi si riempiono la bocca, strumentalizzando il problema senza risolverlo. Caivano è la dimostrazione che se lo Stato vuole, il problema lo affronta e il modello va replicato. Le periferie bisogna farle vivere con la cultura, i trasporti perché altrimenti restano ghetti ma anche con i negozi di prossimità, che presidiano il territorio e creano un tessuto sociale vero. Al contrario dei social che accarezzano le certezze delle persone a cui vengono proposti contenuti in linea con il proprio pensiero e così creano individui isolati, che fanno parte di comunità virtuali chiuse in una bolla surreale”.