REDAZIONE MILANO

A LEZIONE DI DIALETTO Chi accampa scuse pur di non lavorare

La cattiva lavandera no troeuva mai la preja bòna– (la cattiva lavandaia non trova mai la pietra buona). Questa è una metafora coniata dai milanesi per identificare le persone che accampano scuse pur di non lavorare o per rimandare un lavoro di GIANFRANCO GANDINI

La rubrica "Tòcch de Milan" di Gianfranco Gandini

Iniziando questa rubrica vorrei ricordare che talvolta i detti, i motti o le leggende presenti nella nostra città, traggono origine da più versioni. È anche opportuno ricordare alcune fra le più elementari regole della fonetica usando la grammatica del prof. Claudio Beretta: vocali a, e, i, brevi, sia aperte (à, è, ì) sia chiuse (á, é, í) quando seguite da due consonanti o in fine di parola (màtt, pèss, ténc, mangià, vedè..) lunghe sia aperte, sia chiuse quando sono seguite da una sola consonante (màder, vèdov, pàs, pés) oppure quando sono doppie in fine di parola (andaa, vestii). Nei prossimi numeri vi daremo altre indicazioni.

La cattiva lavandera no troeuva mai la preja bòna– (la cattiva lavandaia non  trova mai la pietra buona)

Questa è una metafora coniata dai milanesi per identificare le persone che accampano scuse pur di non lavorare o per rimandare un lavoro. Ma il Vicolo Lavandai identifica un luogo che, in passato, era deputato proprio a uno dei lavori e a delle figure caratteristiche del nòst Milan, che oggi sono scomparse o si sono trasformate in funzione dell’evolversi dei tempi.

I lavandai all’inizio erano i lavandee , cioè uomini, si erano riuniti in una confraternita fin dal diciottesimo secolo, il cui protettore era Sant’Antonio da Padova, al quale venne dedicato un altare nella chiesa di Santa Maria delle Grazie.Successivamente subentrarono le donne. Il Vicolo Lavandai è un punto caratteristico e molto apprezzato di Milano, dove si conservano ancora tracce di quella che era la città di un tempo.Le lavandaie usavano le pietre di granito, del fossett, il ruscelletto alimentato dalle acque del Naviglio Grande per battere e sciacquare i panni (per fà la bugada – per fare il bucato).

Alcuni, pochi per la verità, pensano che quelle pietre siano i famosi brellin ma non è esatto: el brellin in effetti era, in genere, una cassetta di legno riempita di paglia sulla quale le donne appoggiavano le loro ginocchia affinché non fossero martoriate dalla pietra mentre erano chinate nell’intento di lavare e sciacquare i panni.  Da ricordare che, dopo un’iniziale preponderanza di lavandai, presero il sopravvento le donne: da qui le vibrate proteste delle stesse per il nome dato al vicolo “dei lavandai” e non delle “lavandaie”.  Il ristorante “El Brellin” è attualmente ubicato dove esisteva la vecchia bottega del “fondeghee”, il droghiere che vendeva il sapone alle lavandaie; il locale mantiene intatti i camini e i soffitti.

di GIANFRANCO GANDINI