Milano – “Le modalità della condotta illecita tenuta rendono evidente la gravità della lesione inferta alla reputazione dell’amministrazione”. In primo luogo, argomentano i giudici, “i reati commessi hanno la potenzialità, in ragione della loro intrinseca gravità, per incrinare la fiducia della collettività nel buon andamento e nell’imparzialità della pubblica amministrazione”. E ancora: “Tale effetto è potenziato da quanto emerso con evidenza dalle indagini e dalle stesse ammissioni dei rei, ovverosia che le condotte illecite, lungi dall’essere episodiche, si inserivano invece in una prassi criminale consolidata, all’interno di un ambiente lavorativo “tossico”".
Ecco le motivazioni che hanno spinto la Corte dei Conti a condannare Tiziana Bozzini e Stefano Urso a risarcire 40mila euro all’Agenzia delle Entrate. I due furono arrestati e messi ai domiciliari il 10 luglio 2020 con il collega Davide Di Santo dai carabinieri del Nucleo investigativo, a valle di un’indagine partita dalla segnalazione di altri due impiegati. L’inchiesta aveva fatto emergere che “Bozzini e Di Santo erano usi fare mercimonio di copie di atti sottoposti a tasse ipotecarie, rilasciate a soggetti privati, consentendo a questi ultimi di riceverle pagando, peraltro in contanti e non con forme tracciabili, somme inferiori a quelle dovute (che venivano intascate dai funzionari infedeli)”. Per quanto riguarda Urso, “si appurava che questi collaborava con soggetti privati per gestire per conto di costoro, dietro remunerazione, pratiche inerenti all’ufficio, in contrasto con i propri doveri, svolgendo una sorta di lavoro parallelo di carattere privatistico all’interno dell’ufficio pubblico”.
Rinviati a giudizio, gli imputati hanno scelto il patteggiamento: Bozzini, Di Santo e Urso sono stati condannati rispettivamente a 2 anni e 4 mesi, 2 anni e 10 mesi e 2 anni. Chiusa la parentesi penale, si è aperta la partita contabile. La Procura ha contestato sia il danno patrimoniale generato dal mancato introito delle tasse ipotecarie (6.974 euro per Bozzini e 29.474 euro per Di Santo) sia il danno d’immagine (quantificato in 50mila euro). Di Santo ha scelto il rito abbreviato, uscendo così dal processo. Bozzini e Urso hanno preferito il rito ordinario: la prima ha assicurato di aver già versato 4mila euro all’Agenzia delle Entrate; il secondo ha provato a sostenere che la collaborazione data ai privati “sarebbe rientrata in una normale prassi volta ad agevolare l’utenza, affinché ogni pratica venisse impostata correttamente, con conseguente miglioramento dell’efficienza dell’ufficio”.
Una tesi bollata come “risibile” dai giudici, nonché “palesemente smentita dalle risultanze delle indagini penali”, dalle quali è emerso che Urso, “lungi dall’essere mosso da nobili intenti di buon dipendente, unicamente preoccupato di instradare gli utenti nella corretta predisposizione delle pratiche”, era invece “uso fare ampio e disinvolto mercato di tale attività “consulenziale””. Conclusione: Bozzini deve versare 6.974 euro; e sia che Urso devono pagare in solido 33.333,32 euro, cioè 50mila euro meno il terzo addebitato a Di Santo.