“Il nostro più grande rammarico, la nostra sconfitta, è non essere riusciti a intercettare segnali che erano sotto i nostri occhi: in tutto questo tempo, nessuno si è mai confidato con noi". Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria e fondatore delle comunità Kayros, riflette sulle violenze emerse dall’inchiesta della Procura di Milano e rimaste per anni sotto silenzio: "Se leggiamo i testi di tante canzoni trap è tutto scritto, ma noi non siamo stati in grado di ascoltare".
Don Claudio, alla luce degli episodi emersi come andrebbe riformato il sistema del carcere minorile?
"Ho idea che quello del Beccaria non sia un caso isolato e per questo servirebbe una riflessione più ampia, anche sulla formazione e sulla preparazione del personale. C’è un disagio profondo che deriva dall’incapacità degli adulti nel fronteggiare alcune situazioni senza ricorrere alla forza, un problema culturale. I giovani detenuti possono manifestare atteggiamenti aggressivi, gli agenti della polizia penitenziaria lavorano in condizioni difficili ma non si può giustificare la violenza. Conosco tanti agenti che si guadagnano il rispetto dei ragazzi senza l’uso della forza, e da qui bisogna ripartire".
Che clima si respira, ora, al Beccaria?
"Come sempre c’è un clima di tensione, le conflittualità rischiano di esplodere e in questo momento siamo in una fase di riequilibrio, con tutte le difficoltà legate all’inserimento dei nuovi agenti appena arrivati".
In questi anni nessuno, tra i detenuti, si era mai confidato con voi?
"Nessuno ha parlato, altrimenti saremmo intervenuti. Il più grande rammarico mio e di don Gino Rigoldi (predecessore di don Claudio Burgio come cappellano al Beccaria, entrambi sono stati ascoltati dai pm come testimoni, ndr) è di non essere riusciti a conquistare la fiducia. Quando sono in comunità i ragazzi si confidano, ma in carcere la situazione è diversa. Al Beccaria le liti sono frequenti, spesso vedevamo ragazzi con contusioni sul volto. Noi non siamo riusciti a cogliere segnali che erano sotto i nostri occhi, e questo ci ha choccati".
Perché, secondo lei, i ragazzi non si sono confidati?
"A mio parere perché c’è un’abitudine alla violenza, per loro certi comportamenti erano normali. Se leggiamo i testi di tante canzoni trap è tutto scritto, ma noi non siamo stati in grado di ascoltare".
Dopo quello che è successo modificherete, in qualche modo, il vostro intervento?
"Stiamo facendo una riflessione e sicuramente il nostro impegno, anche in termini di tempo, sarà ancora più forte. Ci siamo resi conto che serve una presenza più stabile, un contatto quotidiano e diretto con tutti i detenuti. Noi non arretriamo, ma intensifichiamo gli sforzi".
Quanto hanno pesato i problemi che, al Beccaria, si trascinano da decenni?
"Il carcere è stato lasciato nell’abbandono, anche se questo di certo non giustifica le violenze. Dopo l’evasione del 2022 il ministero ha cercato di intervenire. Da qualche mese c’è finalmente un direttore stabile, Claudio Ferrari, presente tutti i giorni, che sta facendo il massimo sforzo per riorganizzare la struttura. È un punto di partenza per arrivare a un cambiamento, anche se le condizioni restano critiche. Attualmente si contano 80-90 detenuti, una situazione di pesante sovraffollamento che rende il Beccaria una polveriera".