STEFANIA CONSENTI
Cronaca

Don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria: “I giovani delle rivolte? Temo siano gestiti da organizzazioni criminali”

Lo storico collaboratore di don Gino Rigoldi: “Per loro valgono solo i soldi. A chi chiederei una mano? A un imam”

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Don Claudio Burgio, 55 anni, cappellano del Beccaria e anima della comunità Kayros

Milano, 2 settembre 2024 – Don Claudio Burgio, 55 anni, cappellano del carcere Beccaria, collaboratore storico di Don Gino Rigoldi, ci risiamo, è l’ennesima rivolta. Difficile trincerarsi dietro le solite spiegazioni. Cosa è stato fatto, cosa ancora no, quali le promesse mancate?

“La verità è che abbiamo le armi spuntate dinanzi a questo fenomeno. E non è certo un problema solo del Beccaria. Non abbiamo ancora capito bene che cosa ci sia dietro. Una cosa di cui si parla ancora troppo poco è che questi ragazzi, tutti minori stranieri non accompagnati, hanno vissuto sempre per strada, commettendo reati e consumando droghe. Nessuno di noi è preparato, non si sa come prenderli, il primo impedimento è la lingua, nonostante i mediatori. Quando arrivano al Beccaria, dal punto di vista psichico hanno un crollo, non potendo consumare stupefacenti. E non a caso le rivolte scoppiano di sera, quando i pensieri si fanno pesanti, con la richiesta di psicofarmaci”.

La cultura, la musica rap, possono aiutare?

“Non sono minimamente interessati. Il rap appartiene ai migranti di seconda generazione. Questi invece, sono ragazzi arrivati giovanissimi in Italia per fare soldi, i social hanno globalizzato l’idea che l’Europa è ricchezza. E attraverso i reati sono riusciti a mandare tantissimi soldi nei Paesi di origine, un tutto e subito che viene interrotto dalla carcerazione...per loro è incomprensibile, non hanno il senso della legalità. E anche quando vengono mandati nelle comunità, quelle poche che ci sono ancora, poi scappano e si ritrovano anche due o tre volte al Beccaria. Poi, mi sono fatto una mia idea. Girano in molti Paesi europei e ovunque fanno danni. Comincio a pensare che siano gestiti da organizzazioni”.

Perché lo pensa?

“Perché sanno dove andare, conoscono i luoghi della movida, dove gira il denaro, hanno appoggi evidenti, in tutta Europa”.

Non possiamo arrenderci, né pare una soluzione quella di chiudere il Beccaria...

“Io sono un prete, chiederei volentieri aiuto ad un imam perché c’è anche una dimensione etica, interiore che non può essere affrontata con i nostri parametri cattolici. Una strada che finora non abbiamo mai provato. Con le dovute cautele, potrebbe servire per raggiungerli meglio. Una task force composta da mediatori linguistici, imam e selezionati agenti della polizia penitenziaria. Un mix di competenze. Ma siamo in ritardo, temo”.

C’è ancora un problema di organico? Gli agenti sono attrezzati per incarichi così complessi?

“Il Dipartimento sta facendo il possibile e numericamente sono aumentate le forze. Ma gli agenti sono giovani, spesso non hanno gli strumenti per ricondurre alla parola questi ragazzi così violenti, senza valori”.

Qualcuno ritrova la retta via...

“Ci sono tante storie positive, come quella di Bilal, conosciuto come il rapinatore seriale, che ho accolto nella mia comunità Kayros. Le comunità sono fondamentali nel percorso di recupero, pensi che un terzo dei ragazzi che attualmente sono al Beccaria secondo il magistrato sarebbero da inviare in comunità. Ma dove? Non ce ne sono. Questo è uno dei fattori di ulteriore sofferenza, il protrarsi continuo della permanenza in istituto anche quando potrebbero essere altrove”.

 mail: stefania.consenti@ilgiorno.it