
Ferruccio Soleri portato in trionfo
Milano, 14 maggio 2018 - Alle 19.10 di ieri è finita un’avventura nata per il settimo giorno, quello del riposo, e invece benedetta dal moto perpetuo. Ferruccio Soleri, sul palco del Piccolo Teatro Grassi, si è tolto per l’ultima volta la maschera di Arlecchino. Dopo 2.283 repliche, all’età di 88 anni, l’attore fiorentino ha deciso di confinare a vita privata la storia d’amore, fin qui a tre, col servitore dei due padroni e il suo pubblico. A ereditarne il testimone, «interpretando senza mai imitare», sarà Enrico Bonavera già da anni nel cast dell’Arlecchino di Giorgio Strehler, il più visto nel mondo. Ci vorrà tempo per rivedere, invece, due Arlecchini sul palco. È successo ieri, nella scena finale a casa Pantalone: Soleri in maschera da un lato, Enrico Bonavera in maschera sul lato opposto. Dieci minuti dopo le 19 il definitivo passaggio di testimone: il palco è vuoto, Bonavera per primo lo occupa, il solo Soleri lo riempie. Senza maschera l’uno, senza maschera l’altro. È il momento in cui tutto si ferma, tranne gli applausi del pubblico. Una standing ovation durata minuti e minuti, non senza commozione. «Ferruccio è un maestro – dice Bonavera, l’erede –. E sa perché? Perché i maestri fanno in modo che gli allievi possano rubar loro il mestiere».
E pensare che pareva destinato ad essere un amore di ripiego, quello tra Soleri e Arlecchino. Un amore da giorni di morbida. A metà anni ’50 Strehler scelse il giovane attore fiorentino come Arlecchino di scorta per una tournée a New York. Il sindacato americano imponeva che al seguito delle compagnie ci fosse un attore che sostituisse l’attore principale almeno per un’esibizione ogni 6. Caso volle che l’attore principale fosse, in quell’occasione, Marcello Moretti, il preferito di Strehler. Ma fu proprio il preferito di Strehler a preferire che Arlecchino fosse Soleri: «Venne a vedermi una sola volta, durante una prova generale – ricordava ieri Soleri –. Io continuavo a chiedergli che cosa dovessi cambiare nella mia interpretazione e lui continuava a dirmi “nulla, nulla”. Allora io dissi tra me e me: “Mamma mia, vuol dire che devo cambiare talmente tante cose che non ce la fa a dirmene una sola”. Invece non era così, era rimasto impressionato dalla mia prova. Tant’è che fu lui a parlare di me a Strehler». E a confermare, così, l’intuizione che per primo ebbe Orazio Costa.
Da allora non si è mai più fermato, Soleri. Elastico, snello, divertente e miracolosamente ancora divertito. Enegia pura, il suo Arlecchino. L’energia di una rinuncia (quella di lavorare in un circo) addomesticata e riscattata in un moto perpetuo che emancipa il pubblico. Sul palco non si vedono quelle duemila repliche, non fosse per il momento degli applausi, quando, rivolto ai suoi compagni di quest’ultimo Arlecchino, gli scappa un labiale che neppure tutti gli occhi del mondo addosso lo convincono a trattenere: «Non ce la faccio più». Ma ride, nel mentre. Tutte quelle repliche non si sono viste neanche ieri, quando Soleri ha fatto capolino nel chiostro di via Rovello composto nella sua giacca, pulito sopra la sua cravatta, come uomo qualunque nell’androne di condominio prima della passeggiata della domenica. Come non ci fosse in corso un contenzioso con Arlecchino per capire chi dei due abbia meglio contribuito a perpetuare la memoria dell’altro. Ma c’è di più in quel suo contegno. C’è quella luce fioca sotto la quale Strehler gli ha insegnato a nascondere la propria interiorità. «Sto provando un’emozione incredibile» confessa infatti. «Sto abbandonando quella che è stata la mia vita di lavoro, una vita che mi ha dato soddisfazioni che non ci si può nemmeno immaginare. C’è un fondo di tristezza in questa gioia». Mai sordo alla fame di vita, è il compagno di sempre, è Arlecchino a venirgli in soccorso per l’ennesima volta: «Porterò ogni giorno con me la sua capacità di essere giovanile e festoso».