
Bambini giocano a calcio (foto di repertorio Germogli)
LA LETTERA - LO SAI, PAPÀ, che quasi mi mettevo a piangere dalla rabbia quando ti sei arrampicato sulla rete di recinzione urlando contro l’arbitro? Io non ti avevo mai visto così arrabbiato. Forse sarà anche vero che l’arbitro aveva sbagliato, ma quante volte io ho fatto degli errori senza che tu mi dicessi niente? Anche se abbiamo perso la partita per colpa dell’arbitro, come tu dici, mi sono divertito lo stesso. Ho ancora molte gare da giocare e sono sicuro che, se non griderai più, l’arbitro sbaglierà molto meno. Papà, capisci, io voglio solo giocare. Ti prego, lasciamela questa gioia, non darmi suggerimenti che mi fanno solo innervosire: tira, passa, buttalo giù. Se buttassero giù me, quante parolacce diresti? Un’altra cosa: quando il mister mi sostituisce o non mi fa giocare, non arrabbiarti, io mi diverto ugualmente, anche seduto in panchina. Siamo in tanti ed è giusto che giochino tutti. E poi, quante parolacce, urla ed imprecazioni si sentono in campo mentre si gioca: non solo da te, ma anche da altri genitori. Non si agisce così, a me hanno detto che le brutte parole non salgono in cielo perché non trovano posto, là stanno solo gli angeli. E scusami, papà, non dire alla mamma, di ritorno dalla partita: «Ha vinto e indossa la maglia numero dieci». Dille che mi sono divertito tanto e basta. Non raccontare che ho fatto un gol bellissimo, non è vero. Ho messo il pallone dentro la porta perché un mio compagno mi ha fatto un bel passaggio e insieme abbiamo lottato per vincere. Dalla televisione ho capito che quel numero è una leggenda: tutti i “grandi” l’hanno indossato: Sivori, Rivera, Platini; Maradona, Ronaldo, Baggio, Del Piero. Ma loro sono nati artisti con dei cervelli carichi di idee, con la fantasia come la pittura di Van Gogh o la musica di Beethoven. E qui mi viene da ridere, papà, perché io non conosco la musica e sono pure stonato. E allora? Ascoltami, papà, non venire nello spogliatoio dopo la partita per vedere se faccio bene la doccia o se so vestirmi. Che importanza ha se metto la maglietta storta? Devo imparare da solo. Stai sicuro che diventerò grande e sarò bravo a scuola, anche se avrò la maglietta rovesciata. E lascia portare a me il borsone. Guarda, c’è stampato il nome della squadra e mi fa piacere far vedere a tutti che gioco a pallone. E sai, non volevo dirtelo perché sono ancora piccolo, ma a scuola la fidanzatine sono in aumento. Non prendertela, papà, se ti ho detto queste cose. Lo sai che ti voglio bene, ma adesso è già tardi, devo correre all’allenamento. Se arrivo in ritardo il mister non mi farà giocare. Anche se ho capito che non sarò mai un campionissimo. A me piace allenarmi e giocare la partita. Sono sereno e felice quando corro nel campo, mi sento libero, libero come il vento e l’acqua che scorre. Marco
Milano, 13 aprile 2018 - «A 12 anni il 40% dei bambini abbandona il calcio, esasperato dalle scene cui sono costretti ad assistere, per colpa di genitori facinorosi». L’allarme lanciato nei giorni scorsi sulle pagine del “Giorno” da Giuseppe Terraneo, coordinatore del Settore giovanile e scolastico della Figc lombarda è inquietante. Non è normale che un ragazzo decida di smettere durante la fase di sviluppo più delicata in cui l’attività fisica è un toccasana per la sua crescita. E invece un po’ per l’agonismo esagerato e per le illusioni, molto per le pressioni di papà e mamme esigenti e persino violenti, le motivazioni e il divertimento vengono meno.
Quanto possano essere devastanti i genitori per il calcio giovanile, lo si può vedere e capire ogni week-end su tanti campi della Lombardia. Non è un caso che il regolamento dei campionati stabilisca fino alla categoria Esordienti (10-12 anni) l’obbligo di far giocare tutti i bambini, bravi o meno dotati, magari senza considerare ufficiali le classifiche. Questo però non frena le ambizioni degli adulti: ci sono genitori che se la prendono furiosamente con l’allenatore, colpevole di non comprendere quel fenomeno del loro figliolo; altri che insultano arbitri-ragazzini; altri ancora che scatenano baruffe verbali e perfino risse con papà avversari o addirittura della stessa squadra. I bambini assistono, piangono, si vergognano. Lo dimostra la lettera scritta da Marco e che pubblichiamo qui a fianco.
«Il calcio è diventato un business mostruoso che coinvolge anche i più piccoli - racconta un tecnico di una società milanese -. E quando un ragazzino non raggiunge certi obiettivi, la colpa è sempre dell’allenatore o del club. Ormai il clima si è avvelenato a causa dell’egoismo di genitori che pensano solo al successo. E sono i primi responsabili delle violenze cui siamo costretti ad assistere, perché in campo quei padri e quelle madri urlano contro l’allenatore e rimproverano persino i compagni di squadra che non passano la palla al proprio bambino, destabilizzando tutto l’ambiente. Per un ragazzino è triste vedere tutto ciò, ecco perché tendono ad escludersi e a lasciare il gruppo».
In un campo della periferia milanese, accanto alla porta d’ingresso, un presidente esasperato ha appeso un enorme cartello, scritto con un pennarello blu: «Chi ha un figlio campione è pregato di portarlo a giocare da un’altra parte». «Il problema è che non tutti i papà e le mamme lo leggono e, soprattutto, lo capiscono - ci spiega un dirigente di una scuola calcio di Milano -. Più scende il livello, e più aumenta la violenza. Negli ultimi tre anni ho visto genitori prendersi a testate in una partita allievi vicino Milano, così come ho visto un papà aggrapparsi alla rete di recinzione inveendo contro il mister che aveva fatto giocare il figlio fuori ruolo. Da pazzi». Aveva ragione Fabio Capello quando, parlando di genitori violenti nel calcio giovanile, disse: «Da responsabile delle “giovanili“ del Milan chiamai papà e mamme avvertendoli: se sento uno di voi dire qualcosa contro l’arbitro o contro i ragazzi, state certi che vostro figlio non giocherà più. Era l’unico modo per far loro capire che i figli devono giocare e divertirsi». Quali rimedi, dunque, di fronte al becerume degli adulti? Ci sono tecnici che organizzano riunioni con le famiglie a scopo educativo (sentendosi rispondere che «i bambini vengono allenati male»), ci sono dirigenti che convocano in società i genitori più focosi invitandoli a darsi una calmata («ma è stato l’altro a provocarmi», l’infantile giustificazione), ci sono società che fanno di tutto per rendere l’ambiente conviviale preparando il “terzo tempo“ a fine gara. E ci sono bambini che, confidandosi fra di loro, reclamano il diritto di sbagliare e di divertirsi. Qualcuno anche in Lombardia, sta pensando di riproporre il “Silent Match”, ovvero una partita senza insulti ma caratterizzata solo da applausi e incoraggiamenti. L'esperimento, da un’idea di una mamma sdegnata, è riuscito due settimane fa a Zoppola, in provincia di Pordenone, dove si è disputato un match fra Esordienti. Poche regole, scritte in un volantino consegnato all’ingresso dello stadio: «Sono consentiti solo gli applausi e le espressioni collettive di incoraggiamento verso i ragazzi. Nessun commento dovrà giungere dagli spalti verso i giocatori o nei confronti del dirigente arbitro». Tutto è filato liscio. Solo applausi, anche ai gol degli avversari. Alla fine ha vinto il fair-play.