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Filippo La Mantia: "La mia caponatina ha sedotto Milano"

Non si definisce uno chef. Anzi, sorride alla parola. Parla di se stesso come un oste che ama il convivio. Da circa 18 mesi è sbarcato a Milano con un locale tutto suo in piazza Risorgimento, acquistato da Dolce e Gabbana e portato al successo. Non solo con i suoi piatti. Ma con caponata e filosofia di LUISA CIUNI

Filippo La Mantia

Milano, 1 febbraio 2016 - Non si definisce uno chef. Anzi, sorride alla parola. Parla di se stesso come un oste che ama il convivio. Che apprezza la frittata e i sapori antichi. Ma in realtà lui Filippo La Mantia, arrivato alla cucina da una durissima esperienza personale, è un grande dei fornelli sia che offra una semplice frittata sia che sperimenti innovazioni nella complessa e antica cucina siciliana. Da circa 18 mesi è sbarcato a Milano con un locale tutto suo in piazza Risorgimento, acquistato da Dolce e Gabbana e portato al successo. Non solo con i suoi piatti. Ma con caponata e filosofia.

Perché Milano?

«Perché dopo 17 anni di Roma, dove ho fatto di tutto e sono diventato noto, mi ero come si dice a Palermo “abbuttato”, mi ero stufato. Cercavo un altro equilibrio, l’ho trovato qui. Giravo per Milano perché volevo un posto dove riuscire a visualizzare bene me stesso, uno spazio piccolo che diventasse il mio riflesso. Un posto di cui impossessarmi. In tre mesi, dopo averlo visto, ho comprato quello di Dolce e Gabbana. Poi ho spiegato all’architetto Lissone le mie impressioni e lui me lo ha realizzato. Il primo ristorante che ho tutto e solamente mio».

Cosa ti ha dato la città?

«Molto. I milanesi non vengono per mangiare. Vedono come è il posto, quali parametri ha. Se non li accontenti, hai finito. Solo dopo averti studiato pensano al cibo. Sono riuscito a farmi conoscere per quello che sono».

Tu sei arrivato alla cucina durante il soggiorno all’Ucciardone di Palermo (fu accusato ingiustamente di complicità nell’omicidio di Ninni Cassarà e poi totalmente scagionato dal giudice Giovanni Falcone, nda). Come mai?

«Io cucinavo già per piacere personale. Poi mi sono trovato lì con la giornata che non passa mai. Da fuori non si capisce che cosa significa il tempo in un carcere e che importanza vi rivesta il cibo. Ha un valore totale, permette di ricostruire chi eri, chi sei. Fare bene un piatto diventa importantissimo. Così come utilizzare gli avanzi e non sprecare, non buttare nulla, riciclare».

Ora è di moda non sprecare

«Sì, ma l’etica contro gli sprechi è un progetto antico nato dalla cucina povera. Ed è un concetto giusto da ricordare sempre. Un tempo lo sperpero del cibo non esisteva, è nato dopo e non ha ragione di esistere».

Cuoco o chef?

«Io sono un oste. Conosco tanti cuochi stellati, sono un’altra categoria. Mi ha stupito come mi hanno accettato e come rispettino il mio ruolo. Ne sono contento. Io però non ho stelle o tecniche accademiche. Rispetto a loro, rappresento un’alternativa».

Ai ragazzi il mestiere piace molto.

«I giovani vedono la televisione e sognano di diventare come Cracco o Cannavacciuolo. Si vedono famosi in un batter d’occhio, grazie alla tv. Ma quella è gente che cucina da trent’anni e si può permettere di fare show in tv! I giovani hanno idea di che cosa sa fare Cannavacciuolo? Una cucina sublime che riposa su anni di gavetta, lavoro, fatica. Altro che fama televisiva».

E allora come si comincia?

«Sarò violento, sarò poco popolare ma si parte da lavare i piatti, la cucina, i frigoriferi, le celle refrigeranti, pulire carne, pesce e verdure. Una bella esperienza, credimi, per chi non lo ha mai fatto. Mani sporche. Fatica fisica. Poi bisogna sapere fare la spesa. Insomma la gavetta. Solo dopo si può aspirare alla fama».

Tu hai sfondato.

«Per me ogni giorno è come il primo. La città è preparata ma pretende. Non viene per fame ma per cercare qualcosa, devi capire le situazioni e saperle dare cosa vuole. All’inizio c’è stato una specie di scontro culturale fra la mia cucina siciliana rivisitata (leggera, senza soffriti e sughi grassi) e Milano poi ci siamo intesi. Ora il progetto è a punto, tanto che sono sempre pieno».

Che cosa ha sedotto la città?

«La caponatina, quella non basta mai...».

di LUISA CIUNI