MARIA RITA
Cronaca

Filippo Turetta. Il delitto simbiotico

Il padre di Giulia Cecchettin esce dal Tribunale di Venezia dopo l'udienza sull'assassinio della figlia, svelando il lato oscuro di Filippo Turetta.

Filippo Turetta. Il delitto simbiotico

Il padre di Giulia Cecchettin esce dal Tribunale di Venezia dopo l'udienza sull'assassinio della figlia, svelando il lato oscuro di Filippo Turetta.

Parsi

Il nobile, coraggioso, esemplare, padre di Giulia Cecchettin ha dichiarato, uscendo dal Tribunale di Venezia, d’aver ascoltato, con troppa angoscia, le risposte dell’assassinio di sua figlia: "Ora sappiamo chi è veramente Filippo Turetta". Per lui è, certamente così. Ma il perché questo giovane sia arrivato a tanto, non sembra essere oggetto di un reale approfondimento affinché questo processo non diventi il luogo dell’ulteriore protagonismo di questo assassino. E non produca, poi, quei deleterei ma costanti “effetti scia”. Filippo Turretta, benchè affermi: " Io non sono cattivo", invece lo è. Nel senso che “captivus-i” - parola a radice latina che significa “prigioniero”- rende questo attributo a lui rivolto, decisamente adatto e calzante. Perchè Filippo Turetta è realmente “prigioniero” di un male costruito su fantasie di contenimento, controllo, potere assoluto che rimandano al fatto che ha ucciso perché “il contenitore”, costituito dall’assoluta dipendenza da Giulia, gli veniva meno. Il suo è - e questo vale per tanti efferrati, criminali femminicidi - un delitto simbiotico. Ovvero un delitto che rimanda a quella che il grande neuropsichiatra, Giovanni Bollea, definiva “la fase simbiotica” del duo in uno, all’inizio della vita. E, per Filippo Turetta, quella fase non è stata mai superata. Per lui, è non essere in grado di rinunciare al contenitore. È non essere in grado nè di nascere né di crescere ma soltanto rimanere “feto”. Perchè, se da "feto in desiderio di eterna simbiosi" col suo contenitore, è costretto a venire fuori, si sente cacciato e precipitato nel vuoto e nell’abbandono di un mondo ostile. E, ancora, arriva ad essere come quel feto che venendo al mondo fa morire sua madre. E resta solo e resta vivo con un senso di colpa insopportabile ma con l’incapacità di farsi fuori avendo fatto fuori il contenitore all’origine della sua vita. La donna - madre e/o compagna - è sempre e soltanto un contenitore di cui non può fare a meno per continuare a vivere. E che per Turetta, non essersi ucciso e passare dal simbiotico rapporto con il contenitore Giulia al simbiotico contenitore del carcere a vita, sia la sola libertà a cui, uno come lui, può aspirare.