
INSIEME Teo, il maialino vietnamita di Giampaolo Grazioli, ha tre mesi
Milano, 16 settembre 2017 - Uno strano animale si aggira ogni giorno in Darsena: è un maialino vietnamita, si chiama Teo e ha 3 mesi. Lo accompagna, elegante come Lord Brummel, il suo padrone, Giampaolo Grazioli. Un passato importante da falsettista in canto barocco: si è esibito anche in concerti in America e in Europa. Una casa in Darsena che sembra un’Arca di Noè tra uccelli diamantini, tartarughe, salamandre e gambusie, piccoli pesciolini che vivono in un’acquasantiera. Ma l’animale «totem» è l’assiolo che scorazza liberamente tra le stanze. «La famosa civetta di Minerva» dice. Già, perché questo 49enne, nato a Bergamo ma trapiantato a Milano nel 1999, è anche docente di filosofia al liceo artistico statale di Brera, in via Hajech. «Mi piace degli animali la loro “animalità”. E anche la trasparenza del loro essere» glossa.
Professor Grazioli, perché ha scelto la dura vita dell’insegnante invece che il mondo dorato della musica?
«Un po’ per calcolo. Prima di laurearmi in Estetica con Stefano Zecchi, avevo ricevuto la proposta di trasferirmi a Basilea, in Svizzera, per diventare professionista. Ma ho preferito finire l’università. Il canto barocco implica un vero e proprio agonismo locale. Ad una certa età, la voce non è più in grado di raggiungere certe tonalità e in Italia – dove il “bel canto” è nato ma poco diffuso – avrei avuto difficoltà a “riciclarmi”. Così ho preferito terminare Filosofia, prendendo l’abilitazione anche per l’insegnamento in Lettere. La musica però l’ho portata a scuola. Sono stato 10 anni vicepreside all’istituto comprensivo «Ilaria Alpi» in Barona. Qui dirigevo un coro di 300 persone, tra bambini e adulti, con altri professori, genitori, personale ausiliario. Il livello era altissimo: cantavamo la “Juditha triumphans” di Antonio Vivaldi all’auditorium di Largo Mahler…».
Poi cosa è successo?
«Mi sono venuti due polipi alle corde vocale. Ho capito che mi stavo “bruciando”. Così ho chiesto il passaggio di cattedra per il liceo artistico, due anni fa».
Non è scappato in provincia a riposarsi?
«No, adoro Milano, è iperattiva come il sottoscritto. C’è come una corrente che ti investe appena ci si trasferisce che poi non ti abbandona più. Io sono fiero della mia milanesità, come della mia italianità. Se ne fossimo più consapevoli usciremmo dalla famosa crisi. Venezia, quando ha perso i commerci, ha campato di arte, musica e Carnevale. Col terziario avanzato, insomma».
Lei vive e lavora non lontano dalla Darsena. Come si trova?
«Bene. Abito qui da quasi 20 anni. Certo è cambiata molto la zona, dai tempi in cui c’era il mercato di Sinigaglia il sabato. Ricordo il momento dell’“interregno”, quando l’antico porto era invaso dalle nutrie. Per carità, io le adoravo ma la loro presenza era poco legata al contesto. La riqualificazione? Un bel progetto ma forse un po’ spersonalizzante. Adesso la Darsena assomiglia a tante città mitteleuropee, a Copenhagen o Amsterdam»
Come insegna filosofia?
«Seguendo le indicazioni del Ministero ovviamente, anche se non trascuro contenuti esistenziali. Ma preciso che non sono un guru né tantomeno l’amico degli studenti. Sono un professore di filosofia. I miei alunni mi danno dei lei e si alzano in piedi quando entro in classe. Anche io non mi sono mai permesso di dare del tu a nessuno di loro. Credo molto nella gerarchia, come nella disciplina».