
Ieri alle 15 il giardinetto di via dei Transiti, cuore di un angolo multiculturale di Milano su cui s’affacciano...
Ieri alle 15 il giardinetto di via dei Transiti, cuore di un angolo multiculturale di Milano su cui s’affacciano la movida latina e la storica occupazione sociale del T28, è stato ribattezzato “Maria Montuoro” nell’applauso unanime dei dirimpettai. Perché basta ascoltarla, la storia di questa donna che fu per trent’anni dattilografa del Comune di Milano, morta a 92 anni nel 2001. Che da giovane è stata una partigiana, deportata dai nazifascisti nei campi di sterminio e sopravvissuta regalando a noi per anni la testimonianza sua e delle compagne che non ce l’avevano fatta. Ma va ascoltata la storia di tutta la sua famiglia, piena di Alfonsi e di Marie, come testimoniano i pronipoti che ieri hanno partecipato all’intitolazione insieme all’assessore alla Cultura Tommaso Sacchi, al presidente del Municipio 2 Simone Locatelli, alla vicepresidente dell’Anpi Ardemia Oriani, agli studenti delle scuole del quartiere, ad altre autorità e a chi non è stato capace di non fermarsi o affacciarsi ad ascoltare. Una famiglia di siciliani antifascisti che dopo l’8 settembre del ’43 lascia l’isola liberata dagli americani e decide di salire nella Milano repubblichina occupata dai nazifascisti, per combattere nella Resistenza.
Immigrati al Nord contro ogni convenienza, a rischiare la pelle per la patria. C’è Maria detta Mara, classe 1909, suo fratello Alfonso Montuoro, detto Ninì, di due anni più grande, reduce dalla campagna di Russia, e la sorella intermedia Ersilia Maria, detta Tita; sono palermitani. Di soprannomi c’è bisogno perché Ninì e Tita sono sposati con altri due fratelli, rispettivamente Maria, classe 1902, e Alfonso Cuffaro. Che è un ragazzo del ’99, catanese, ingegnere, imprenditore, comunista, e si unisce ai Gap milanesi col nome di battaglia di Quinto.
Nella sua villa di Belgioioso, nel Pavese, ha allestito una tipografia clandestina, e si occupa anche di recuperare armi, munizioni e generi di necessità per i partigiani, aiutato dalla moglie (Tita), dalla sorella Maria, dal cognato Ninì e dalla cognata Mara. Succede che li prendono, per un taccuino trovato a un ragazzo su cui è scritto "Ninì", come racconterà Tita in un libro, “Il sapore del sale”, pubblicato da Gorlini nel 1980: il 24 febbraio 1944 i fascisti dell’Upi arrestano prima Ninì, poi Quinto e Maria Cuffaro a casa in via Lazzaroni, vicino alla Stazione Centrale. Mara la prenderanno due giorni dopo nella villa di Belgioioso, e lei rivendicherà davanti al camerata di essere l’autrice di una lettera sulla "repubblichetta di Salò" ("meravigliosa", scrive la sorella), "perché l’ho sentita". Maria Cuffaro viene subito rilasciata; i due Alfonsi e Mara finiscono a San Vittore, dove saranno interrogati e torturati. L’ingegner Cuffaro morirà nel maggio del 1949 per le conseguenze di quei pestaggi; lo ricorda una lapide in via Soperga 47. Mara e suo fratello Ninì finiscono a Fossoli, e da lì nei campi nazisti: Alfonso morirà a Mauthausen, Maria Montuoro tornerà da Ravensbrück. E racconterà.
Giulia Bonezzi