
Giorgio Gaber e la moglie Ombretta Colli nel '66
Milano, 15 maggio 2016 - L’avvio, oggi, suona celebre come il refrain di una canzone di successo: «Generalmente mi ricordo una domenica di sole...». E poi: «Una mattina molto bella, un’aria già primaverile, in cui ti senti più pulito». E chi, come lui, non si è mai posto la fatidica domanda: «Chissà perché non piove mai quando ci sono le elezioni?». Giorgio Gaber se lo chiedeva (e lo metteva per iscritto in uno dei brani che hanno fatto la storia del suo teatro-canzone) nella primavera di quarant’anni fa, ai tempi delle amministrative. Quelle del paventato, e mai avvenuto, sorpasso da parte del Pci. Da allora tutto è cambiato, ma non la forza ironica e scanzonata di quelle strofe, vergate per lo spettacolo «Libertà obbligatoria» e ancora oggi attualissime, a ogni tornata elettorale. Magia del genio di Gaber e del suo alter ego Sandro Luporini. Un’opera, la loro, che Milano celebra in queste settimane, riportando pezzi della ricca produzione del teatro-canzone nelle periferie della metropoli. Proprio lì dove il viaggio del Signor G era cominciato, all’indomani del Sessantotto e della lunga carrellata di successi snocciolata come interprete di ballate e singoli famosissimi e come conduttore televisivo, a partire dalla fine degli anni Cinquanta. “Milano Noi - Da Gaber a Jannacci. Dall’Ortica al Giambellino. Milano, i suoi artisti, i suoi quartieri”, che due giorni fa ha visto di scena Giovanni Lodetti e Gianfelice Facchetti, tornerà il 21 giugno con Paolo Rossi.
In attesa che la Fondazione Gaber conduca in porto il suo progetto più ambizioso: il festival «Il luogo del pensiero», deputato a raccogliere l’eredità artistica e intellettuale del duo Gaber-Luporini. Staordinario «cantattore» il primo, nato alla scuola del jazz e cresciuto nelle balere a fianco di Enzo Jannacci, Adriano Celentano e Gino Paoli; pungente e anarchico autore il secondo, toscano di Viareggio, prima professionista del basket e poi pittore, sbarcato a Milano inseguendo la corrente del «realismo esistenzialista». Il sodalizio, nato quasi per caso dai primi incontri in un bar, è destinato a segnare un’epoca. Anzi, a creare un nuovo genere: il teatro-canzone, appunto. Capace ancora adesso, a quasi cinquan t’anni dal debutto del primo spettacolo, di regalare suggestioni e immagini di spiazzante attualità. E in moltissimi casi pure straordinariamente divertenti. Il brano «Le elezioni» è un esempio perfetto. Un raffinato sberleffo, tratteggiato a pennellate leggere come un acquerello o il suono dei violini che lo colora. A ispirarlo, la voglia «di controbilanciare - ebbe modo di raccontare più tardi Luporini - l’immagine falsata della nostra opinione che era uscita dal brano La libertà e, in particolare, dal concetto di partecipazione». Un imprevisto che aveva reso «La libertà», sorta di inno generazionale per i ragazzi del Sessantotto e dintorni, un brano a lungo inviso ai suoi stessi autori. Nelle cui intenzioni originarie la chiave del pezzo era in un concetto («la libertà è uno spazio di incidenza») forse più centrato ma impossibile da cantare.
Agli «Anni del noi», la fase creativa cui appartengono i due brani citati e terminata proprio nel 1976 insieme alla totale simbiosi fin lì vissuta coi giovani del movimento, seguiranno quelli della delusione profonda e di una presa di distanza dettata, anche, dalla condanna della lotta armata e degli atteggiamenti modaioli cui un’intera generazione è rimasta ostaggio, in barba alla voglia di cambiare il mondo. E poi, ancora, negli anni Ottanta, il Teatro d’evocazione, dove Gaber inventa un modo nuovo di fare prosa, scrivendo commedie di grande successo per la moglie Ombretta Colli e arrivando lui stesso, con «Parlami d’amore Mariù» e «Il Grigio», al vertice della popolarità e degli incassi. I più alti del teatro italiano. Restano, riconoscibili e immutati, tutti i luoghi consacrati dalle sue canzoni: dalla Milano svettante verso il cielo di «Com’è bella la città» al bar del Cerutti Gino, che è passato ai cinesi ma tant’è. Barbera e champagne non passano mai di moda.
di SANDRO NERI