Nel giorno della Giornata nazionale del fiocchetto lilla, che cade oggi, 15 marzo 2025, dedicata alla prevenzione e alla sensibilizzazione sui disturbi del comportamento alimentare, la storia di Chiara Tanzariello risuona come un invito alla speranza. Per più di sette anni, questa giovane che adesso ha 27 anni, ha vissuto in silenzio la bulimia nervosa, sfiancata da un senso di inadeguatezza che sembrava non concederle tregua. Il 15 marzo 2021, finalmente, Chiara ha deciso di chiedere aiuto all’associazione FoodNet, realtà milanese, dando avvio a un percorso di cura che l’ha portata alla rinascita, e oggi con orgoglio può finalmente dire “Guarire si può, ma ci vuole coraggio”.
Sono 55 i milioni di persone nel mondo - oltre tre milioni in Italia – colpiti da questo genere di disturbo ma troppo spesso relegati nell’ombra. La bulimia nervosa, in particolare, è subdola: chi ne soffre cerca di compensare le abbuffate con metodi come il vomito autoindotto, cadendo in un circolo vizioso che si autoalimenta. In buona parte dei casi non è neanche immediatamente riconoscibile né dall’esterno né da chi ne soffre, almeno nelle prime fasi, e questo contribuisce a ritardare la presa di coscienza e l’avvio della cura.
Come se non bastasse, l’età d’esordio si è pericolosamente abbassata: se prima si parlava di 14-16enni, oggi l’attenzione si sposta tra gli 11 e i 13 anni. Anche per Chiara tutto è iniziato nella prima adolescenza. A quattordici anni, con 59 chili di peso, ha iniziato a considerare il proprio corpo “troppo ingombrante” e a inseguire un ideale di magrezza che la società sembrava premiare. Il suo disagio si è fatto più intenso negli anni. Una corsa continua per smaltire ogni caloria, un pasto ridotto a una bustina di tè con acqua calda, poi le prime strategie per vomitare più facilmente, come bere birra e mangiare patatine in modo da indurre il conato. Eppure, come lei stessa racconta, non si sentiva “abbastanza malata” per chiedere aiuto, forse perché il suo aspetto non cambiava in modo drastico.

Il problema si è acuito quando, a 19 anni, è andata a vivere all’estero, trovandosi in un ambiente tossico che ha riattivato vecchi traumi e amplificato la spirale di abbuffate e restrizioni. Di ritorno in Italia, il malessere non l’ha abbandonata, ma nel marzo del 2021 si è finalmente convinta a scrivere all’associazione “Mi nutro di vita”, scoprendo il progetto FoodNet e iniziando un percorso di terapia seguito dalla dottoressa Deborah Colson.
Chiara ricorda ancora quanto sia stato difficile ammettere di avere bisogno di aiuto. A volte, spiega, ciò che accade nel corpo non sembra “abbastanza grave”, soprattutto se non ci sono segni esteriori evidenti. Le barriere al trattamento, però, non erano solo interne: anche i costi di una terapia la spaventavano, e in famiglia nessuno immaginava la sua sofferenza, perché il suo disturbo era quasi invisibile.
A distanza di alcuni anni, Chiara racconta la svolta, avvenuta proprio in occasione della Giornata Nazionale dei Disturbi Alimentari. Mentre seguiva alcune dirette Instagram sull’argomento, è rimasta a letto, immobilizzata da episodi ripetuti di vomito, finché non ha deciso di prendere in mano il telefono e scrivere quel messaggio che le ha cambiato la vita. “Ho realizzato di avere davvero bisogno di aiuto in un momento in cui mi sono vista stesa sul letto, stanca di colpevolizzarmi e di farmi male fisicamente. Leggere e ascoltare le storie di altre ragazze mi ha dato la forza di dire basta. In casa non se lo aspettavano, perché non mi avevano mai vista vomitare, e io stessa mi ero convinta che fosse ‘normale’. Pensavo che un po’ tutti, ogni tanto, potessero farlo, magari per compensare un’abbuffata. Ma la verità è che non si trattava soltanto di cibo. Il mio era un problema molto più profondo”.
Con la terapia, Chiara ha imparato a riconoscere i meccanismi che governavano la sua vita. Ricorda un episodio capitato prima di rivolgersi a FoodNet, quando andò da una ginecologa per delle forti fitte addominali e accennò al fatto di vomitare regolarmente. La specialista, dopo aver convocato anche una psicologa, liquidò il suo caso come “non grave”, perché Chiara appariva “normale”. La ragazza reagì con sdegno, perché la bulimia non si misura sulla bilancia né su una rapida occhiata rivolta esclusivamente all’aspetto esteriore di una persona. È una malattia che si annida nella mente prima ancora che nel corpo.
Oggi Chiara, però, si sente in pace con se stessa, anche se a volte il “tarlo” torna a bussare. Afferma di avere un rapporto più sereno con il cibo, consapevole che la psicoterapia l’ha aiutata a far “sedere quella vocina negativa in un angolo della mente, chiedendole di restare in silenzio”. È ancora in un percorso di crescita, ma ha ritrovato un equilibrio. Ad aiutarla è stato anche il rapporto con il compagno, conosciuto dopo l’inizio della terapia, che l’ha incoraggiata a riconoscere il proprio valore: “Se prendi 20 chili o se ne perdi 5, io ti amo lo stesso”. Quello di Chiara è il racconto di chi ha sperimentato in prima persona quanto siano subdoli i disturbi del comportamento alimentare, ma anche quanto sia possibile riemergere dal buio con il giusto supporto. Il suo percorso testimonia che riconoscere la malattia è il primo, fondamentale passo verso la guarigione. Quel giorno in cui Chiara ha inviato un messaggio a un’associazione specializzata le ha cambiato la vita: “Se pensi di avere un problema e non ne sei sicura, già vuol dire che in fondo ne sei consapevole. Forse hai solo bisogno di trovare il coraggio per chiedere aiuto.” E oggi, grazie a quel coraggio, Chiara può dire di avere riconquistato se stessa.