
Giovanni Soldini (Ansa)
Milano, 11 marzo 2018 - Quattro anni fa il record sulla «rotta dell’oro», da New York a San Francisco, nel 2015 quello sulla «rotta del tè», da San Francisco a Shanghai. Lo skipper e recordman Giovanni Soldini, 51 anni, la scorsa settimana ha stabilito l’ennesimo primato, percorrendo la via dei clipper che a fine Ottocento portavano i carichi di tè da Hong Kong a Londra, passando per il Capo di Buona Speranza. Un mezzo giro del mondo, 24.000 chilometri, percorso in 36 giorni, 2 ore, 37 minuti e 12 secondi. Cinque giorni in meno rispetto al record precedente, stabilito nel 2008 da un catamarano di 32 metri e mezzo manovrato da un equipaggio di dieci persone. Capitan Soldini l’ha superato con un equipaggio di soli quattro velisti e una barca dieci metri più corta, il Maserati Multi 70 «in assetto non volante».
Cosa significa?
«Il Maserati Multi 70 ha una tecnologia che permette al catamarano di sollevarsi dall’acqua, ma si può usare solo in acque protette. Il mare cinese, cioè le prime duemila miglia fino allo stretto della Sonda, è pieno di sorprese: pattume, pescherecci, reti abbandonate o non segnalate, isole, secche. Troppo rischioso volare in questi mari, si rischiava una collisione».
In seguito il viaggio si è fatto tranquillo?
«No, anzi. La parte più difficile è stata l’ultima. Le ultime 48 ore sono state molto toste, con tanto vento, tanto mare e un freddo tremendo: siamo stati messi a dura prova. Con condizioni meteo più favorevoli in Atlantico avremmo potuto guadagnare altri tre o quattro giorni».
Lei è nato a Milano, non la città ideale per un velista.
«Ci ho vissuto fino a 23 anni, ma non sono mai stato stanziale, per via dei viaggi in barca ma anche delle molte città in cui ho abitato per diversi periodi: Roma, Firenze, infine a 26 anni mi sono trasferito a Sarzana. Avevo la barca a La Spezia e fare il pendolare da Milano era difficile. E poi è nata mia figlia».
Cosa le è rimasto del capoluogo lombardo?
«Mi sento cittadino del mondo, ma ho una cultura nordica, operosa, sono abituato a immergermi totalmente in quello che faccio».
Dove ha abitato in città?
«La mia infanzia l’ho passata in corso Garibaldi, dove vivevo, che a quei tempi era come un paesino: prima si giocava a calcio al parco giochi, poi crescendo ho comprato il motorino e si andava ovunque, dal bar in Sant’Eustorgio al bar Giamaica».
La prima volta in cui ha veleggiato?
«Sul Lago Maggiore, a 4 anni, mi ci portò mio padre. Ma l’amore per il mare è cominciato a 15».
Cosa le manca di più quando è in mezzo al mare?
«In mare ti mancano i vizi, le cose superflue: i dolci, un bicchiere di vino o di birra, una bella mangiata».
Ma almeno una bottiglia di birra a bordo...
«Assolutamente no: il carico è stabilito con precisione ossessiva. È una barca da seimila chili, più del 10 per cento dei quali erano destinati a equipaggio, vestiti e cibo».
Cosa avete mangiato in questi 36 giorni?
«Pasta, riso: da un po’ di anni ho messo a punto una buona tecnica per cuocerli nella pentola a pressione».
Almeno il risotto alla milanese se lo sarà portato.
«Quello sì, ma numerato. In cambusa avevamo ingredienti per farci due risotti gialli a testa».