NICOLA BARONI
Cronaca

Giovannino Guareschi, a 50 anni dalla morte il figlio racconta il padre e la sua Milano

Uno degli scrittori più venduti nel mondo, è morto nel 1968

Alberto Guareschi

Milano, 6 agosto 2018 - "Una volta mia sorella tornò a casa arrabbiata: era stata presa in giro da un’amica perché papà aveva scritto che si era fatta la pipì addosso. “L’ho scritto per finta”, si giustificò lui. Ma la mia amica l’ha preso per vero". Ci hanno messo un po’ Alberto e Carlotta Guareschi a capire che quando Giovannino scriveva, esagerandolo, quello che succedeva in casa, non era per burlarsi di loro ma per far sorridere tutte le famiglie, parlando della propria. Crescendo hanno capito che se Giovannino chiamava la loro madre "la gentile socia della mia malinconica azienda" era per camuffare, con l’umorismo, quella tenerezza tutta padana che radica gli affetti in profondità, senza mai esibirli. Ma crescendo hanno dovuto anche abituarsi all’assenza di quell’omaccione, tra gli autori italiani più venduti al mondo, portato via nel luglio 1968, a soli 60 anni. Oggi Alberto ne ha 78, mentre Carlotta se ne è andata tre anni fa.

Dove la portava l’autore della saga di Don Camillo e Peppone, cioè suo padre?

«Quando aveva tempo in campagna, oltre la massicciata del treno a Lambrate: dopo il cavalcavia e la Cascina rosa allora c’erano solo campi".

Dove abitavate?

"I miei si trasferirono diverse volte, sempre nella zona attorno a piazza Carlo Erba, dove aveva sede la Rizzoli. Prima della guerra eravamo in via Ciro Menotti, nell’unica casa che fu bombardata. Noi eravamo sfollati dalla nonna a Marore, ma il papà era nel rifugio a scrivere a macchina “Il marito in collegio”.

Rimase ferito?

"Macché. Estratto dalle macerie salì sul tetto per tagliare il fuoco dell’abitazione, così che non divampassero incendi: fu l’unico ad avere il coraggio di farlo".

È mai andato alla Rizzoli?

"Spesso andavo a consegnare alla segretaria i disegni di papà. Lei li portava in tipografia e stava a controllare che non modificassero nulla perché erano tutti comunisti".

Nel ’52 lasciaste Milano per Roncole.

«Come scrisse in un racconto, anche se la sua macchina era targata Parma, il suo cuore era targato Milano. Non lasciò mai la casa: la vendette mia madre dopo la sua morte, in periodo di espropri proletari, per paura che la occupassero».

Tornavate a Milano con papà?

"Certo, la Fiera era una tappa d’obbligo, dove noi bambini ci dedicavamo alla raccolta dei depliant. Poi la Rinascente, la libreria Rizzoli e verso Natale il presepe mobile sotto piazza Duomo".

Deve essere stato un padre esigente.

"Feci la prima e la seconda media alla Ascoli e venni rimandato in alcune materie, quell’anno ci trasferimmo a Roncole e preferì farmi rifare la classe. Ma non si arrabbiò: lui stesso a scuola era stato rimandato a settembre in latino e storia, in un periodo difficile, dopo il fallimento del nonno".

Ma quella fu la fortuna dei suoi lettori, giusto?

"Fu in quell’occasione che la nonna cercò qualcuno che desse lezioni di latino senza chiedere una lira. C’era solo il prete, quel don Lamberto Torricelli alto quasi due metri e con due mani grandi come badili che gli ispirerà don Camillo".

I Longanesi e i Guareschi non hanno avuto eredi.

"Mio padre poteva permettersi azioni coraggiose perché alle spalle aveva un editore coraggioso che, sebbene vicino a Nenni, gli ha sempre dato carta bianca. Oggi è difficile trovare un editore così libero".

Cantore dello Strapaese, cosa direbbe Guareschi della Stracittà che è diventata Milano?

"Mio padre non è mai stato passatista. Amava il passato ma era affascinato dalla meccanica, dall’elettronica. Appena tornato a Milano dopo il lager comprò un magnetofono a filo. A Roncole invece prese una fotocopiatrice per inviare ai compaesani le riproduzioni dell’autografo in cui Giuseppe Verdi si appuntava di ricordarsi di togliersi la cittadinanza dal paese, per uno screzio coi suoi abitanti".

Ogni tanto torna a guardare oltre la massicciata di Lambrate?

"Ho smesso di andare perché mi viene il magone".