Milano – Il 12 aprile del 1973 era un giovedì e Milano si trovò investita dalle violenze dei gruppi neofascisti, con scenari da guerra civile: una città assediata e ferita. Alla fine di una giornata segnata da vandalismi, aggressioni, bombe, sull’asfalto di via Bellotti, tra Porta Venezia e piazza Tricolore, rimase un giovane poliziotto di 22 anni, Antonio Marino, colpito da una bomba a mano.
Il Giovedì Nero
Sono passati 50 anni da quello che è passato alla storia come il Giovedì Nero di Milano e alcuni degli attori di quei tragici fatti sono ancora protagonisti sulla scena politica nazionale, come i due fratelli Ignazio e Romano La Russa, all’epoca in testa al corteo che attraversò e sconvolse Milano e oggi, rispettivamente, presidente del Senato e assessore lombardo alla Sicurezza. Entrambi furono ritenuti estranei ai fatti di sangue di quel 12 aprile 1973.
Il corteo vietato
A scatenare la violenza neofascista fu il divieto imposto dal prefetto Libero Mazza alla manifestazione di Msi, Fronte della Gioventù e i gruppi estremisti Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo, “contro la violenza rossa” (il 12 febbraio 1973 a Torino le Brigate Rosse sequestrarono Bruno Labate, delegato Fiat della Cisnal, sindacato legato al Msi: lo rasarono a zero e lo incatenarono in mutande ai cancelli dello stabilimento di Mirafiori). Inizialmente il corteo, che doveva sfilare da piazza Cavour a piazza Tricolore, venne autorizzato. Poi però, proprio per paura di scontri e tensioni in città, venne vietato. Anche perché incaricato del comizio finale era Ciccio Franco, leader missino calabrese protagonista dei moti di Reggio Calabria e noto agitatore di piazze.
L’attentato fallito
Ad accrescere l’allarme di prefettura e questura c’era poi il fallito attentato sul treno Torino-Genova-Roma del 7 aprile organizzato dai militanti del Circolo La Fenice (costola di Ordine Nuovo, fondato a Milano nel 1971 da Giancarlo Rognoni), durante il quale il neofascista Nico Azzi rimase ferito innescando per errore il mezzo chilo di tritolo che stava sistemando su un vagone.
Violenze al Virgilio
Nonostante il divieto imposto dalle autorità il corteo venne comunque organizzato. I manifestanti, guidati dai leader del Msi Franco Servello e Francesco Petronio e da quello del Fronte della Gioventù milanese Ignazio La Russa, verso le 18 iniziarono la loro marcia verso la prefettura scortati dal Terzo Reparto Celere. Durante il corteo vennero attaccati il liceo Virgilio di piazza Ascoli e la Casa dello Studente, ritenuti dai neofascisti covi di militanti di sinistra.
Le bombe a mano
All’altezza dell’incrocio tra via Bellotti e via Kramer, dalla folla vennero lanciate due bombe a mano Srcm Mod 35, ordigni in dotazione dell’esercito (procurate, si scoprì dopo, dallo stesso Nico Azzi), contro le forze dell'ordine schierate: la prima ferì un passante e un poliziotto, la seconda invece colpì in pieno petto e uccise il 22enne Antonio Marino, originario di Puccianiello (Caserta), assunto in Polizia da soli 2 anni. Altri 12 celerini, travolti dalle schegge delle bombe, rimasero feriti.
Il figlio del campione
Dopo gli scontri e la morte di Marino 150 manifestanti vennero arrestati, 80 dei quali subito rilasciati, mentre gli altri vennero incriminati per ricostituzione del Partito Fascista. Al termine delle indagini vennero riconosciuti responsabili del lancio delle bombe Vittorio Loi, 21 anni, (figlio del campione mondiale di boxe Duilio Loi) e Maurizio Murelli, 19 anni. La svolta nell’inchiesta arrivò grazie alla testimonianza di Gianluigi Radice, segretario provinciale del Fronte della Gioventù, che indicò i due giovani neofascisti come gli esecutori materiali. Il Msi, si dissociò dalle violenze, e riconobbe una ricompensa di 5 milioni di lire a chi avesse indicato gli autori del reato (ricompensa che ottenne, appunto, Radice).
Violenze organizzate
Durante le indagini emerse che le violenze in piazza erano state pianificate in un bar di piazza San Babila, ritrovo dei neofascisti milanesi: i manifestanti erano armati con mazze ferrate, alcune molotov, pistole e tre bombe a mano, due quelle quali vennero poi usate.
Accuse, ripensamenti e condanne
Murelli e Loi inizialmente accusarono, tra gli altri, anche i fratelli La Russa. In particolare dissero che Romano era a conoscenza della presenza delle bombe nel corteo. Entrambi però ritrattarono, dicendo di aver lanciato accuse contro i vertici del movimento perché si erano sentiti abbandonati. Ignazio La Russa non venne quindi rinviato a giudizio, mentre Romano – per il quale il pm chiese una condanna a 2 anni – venne assolto. Murelli e Loi vennero condannati a 19 e 18 anni di carcere, mentre Nico Azzi (rimasto invalido in seguito al fallito attentato sul treno) ricevette una condanna di 2 anni per aver procurato le due bombe.