
Il filosofo e matematico Giulio Giorello
Milano, 27 dicembre 2015 - «Milano è la città dell’incontro delle intelligenze. È un grande laboratorio che ti fa sperimentare il confine tra culture diverse». Lo racconta il filosofo Giulio Giorello. «Ne ho la prova perché vivo in una parte della città che è diventata il quartiere del Politecnico e delle nuove tecnologie».
Parla anche della zona che preferisce? «Sì, Lambrate. Siamo per così dire cresciuti insieme. Ricordo ancora da bambino le macerie della guerra. E poi la sua rinascita con l’intensificarsi del ruolo del Politecnico, della Facoltà di Medicina, dell’Istituto di Fisica, i luoghi della scienza, della ricerca, delle scoperte e del progresso».
Come è capitato in questo quartiere? «Ci sono stato concepito. Mio padre Carlo, lavorava alla Vittoria assicurazioni. Durante la guerra era stato richiamato alle armi, ma in seguito non volle aderire alla Repubblica Sociale Italiana, per questo fu arrestato e deportato. Nel viaggio in treno, con un compagno, fecero un buco nel pavimento del vagone, si calarono e si stesero tra le rotaie, il convoglio passò sopra di loro, li lasciò indenni e così riuscirono a scappare».
E suo padre dove si rifugiò? «A Milano, in via Visconti d’Aragona 25, non lontano dalla Stazione di Lambrate, a casa di una sua collega, Wanda, che poi sarebbe diventata mia madre. Lei era vedova e aveva già un figlio, mio fratello Sergio. Quando dovevo nascere, mio padre la portò sulla canna della bicicletta alla Macedonio Melloni».
Qual è la via che le piace di più? «La via Valvassori Peroni. Avevo cinque anni, nel 1950, quando fui preso per un piccolo ruolo nel film “Miracolo a Milano’’, che Vittorio De Sica girò anche in questa via. Interpretavo un bambino malato. In Vavassori Peroni ci ho trascorso gran parte della mia infanzia. Ci sono alcuni tratti, per esempio verso il civico 45, che sono rimasti uguali ad allora. Milano finiva a Lambrate, poi c’era la campagna. Qui ci passava anche la transumanza. Vicino c’erano tante cascine. Una era la Cascina Rosa, con bei campi. Con i compagni sfidavamo le ire le padrone per andare a cogliere papaveri e fiordalisi che portavamo alle nostre madri. Tanti ricordi che condivido con il mio amico, Alfredo Castelli, il creatore di Martin Mystère, che continua a vivere qui».
E poi il liceo, l’università e la scelta di dedicarsi alla filosofia? «Al Liceo Berchet, alcuni incontri importanti. Come l’architetto Ernesto Nathan Rogers, dello studio BBPR, che venne a tenere una lezione sull’architettura come filosofia che si basa sulla teoria che gli abitanti organizzano lo spazio dove vivono. Aveva valorizzato così la funzione dei cittadini. Capii che ricostruire Milano significava ricostruire l’Italia. Poi conobbi anche il filosofo Ludovico Geymonat, che sarebbe diventato il mio maestro. Lui mi convinse a studiare filosofia all’università. Da ragazzino poi compravo “Il Giorno” perché era il primo quotidiano a pubblicare i fumetti. Ma sempre al liceo c’era anche Don Giussani che mi aveva preso di mira, dopo che aveva visto che leggevo “Perché non sono cristiano” di Bertrand Russell. Diceva: “Voi atei, vi pentirete”. Insomma non era per niente gradevole».
Qual è una caratteristica di Milano che lei ha sempre avvertito? «La voglia di andare avanti. E anche lo spirito di dialogo. Penso a quegli anni della “Cattedra dei non credenti” animata dal cardinale Martini. Avevo sperimentato un senso di apertura ai problemi e di libertà, tema di cui tratto anche nel mio ultimo libro “Libertà” (Bollati Boringhieri). Milano è stata fondamentale anche per l’attività teatrale. Nella memoria mi sono rimasti impressi tanti spettacoli dal “Galileo” di Brecht con la regia di Strehler, alla mia collaborazione con Ronconi per “Infinities” di Barrow. L’unico rammarico fu che gli spazi dei laboratori della Scala alla Bovisa, usati per lo spettacolo, non sono stati poi rivitalizzati dalla città. Un’occasione persa. Alcune volte penso a Milano come a una bella ragazza che si trucca male».
I momenti in cui si è divertito? «Al Nuovo ho visto Totò, Wanda Osiris, Dapporto e Rascel ma anche l’opera colta cioè il “Dido and Aeneas” di Purcell. Una bella caratteristica è che prima i teatri mescolavano di più i cartelloni e gli ambiti».
E la scienza? «Sono stati importanti per la mia formazione il “Museo della Scienza e della Tecnica” che regge il paragone con l’omologo di Londra, il Museo di Storia Naturale e il Planetario. Come diceva Carlo Cattaneo: “I musei raccontano la storia dell’intelligenza collettiva”. Insomma da Leonardo in poi Milano non si è lasciata sfuggire un’occasione per progredire».
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