
Hiroshi Amano con Marco Orlandi, prorettore vicario dell’università Bicocca
Milano – I led sono ovunque: dai nostri schermi alle strade, dalle case agli uffici. Li diamo per scontati, come se fossero sempre esistiti. Ma dietro quelle luci c’è una storia di innovazione, tenacia e anche un po’ di baseball. Ieri Milano e l’Università Bicocca hanno accolto Hiroshi Amano, premio Nobel per la Fisica nel 2014 e padre dei led blu insieme ai colleghi Isamu Akasaki e Shuji Nakamura. Dall’università milanese, Amano ha ricevuto una laurea honoris causa in Scienze e Nanotecnologie per la Sostenibilità.
Professore, come spiegherebbe in parole semplici l’invenzione che le ha fatto vincere il Nobel nel 2014?
“Io e i miei colleghi Akasaki e Nakamura siamo riusciti a ottenere il led blu. Negli anni ’80 esistevano già i led rossi e verdi, ma senza il blu non si poteva ottenere la luce bianca. E senza luce bianca, niente illuminazione. Grazie alla nostra scoperta è stato possibile creare lampadine a led bianche, sostituendo le vecchie lampade a incandescenza. E abbiamo anche smesso di usare i monitor a tubi catodici”.
Una scoperta rivoluzionaria per efficienza e risparmio energetico.
“Esatto. Le lampade a incandescenza durano circa 1.000 ore e vanno cambiate spesso perché funzionano grazie a un riscaldamento intenso, che causa uno spreco enorme. Le lampade a led, invece, hanno una durata di decine di migliaia di ore. Quindi non devono essere sostituite di continuo”.
Oggi i led sono ovunque. Le fa un certo effetto?
“La cosa che mi dà più soddisfazione sono i semafori. Prima si usavano lampade a incandescenza anche lì, mentre ora ci sono i led. Ogni tanto, quando guido e li guardo, ci penso. Ma guardo sempre al futuro, non mi compiaccio troppo”.
Come ha reagito quando ha scoperto di aver vinto il Nobel?
“Inizialmente non lo sapevo. Ero in aereo. Quando ho fatto scalo a Francoforte e ho acceso il telefono, mi sono trovato sommerso da centinaia di messaggi e mail di congratulazioni. Non capivo perché. Poi sono arrivato a Grenoble e, una volta sceso, ho visto una folla di giornalisti. Ho pensato: “Wow, deve esserci qualcuno di famoso sull’aereo“. E invece ero io quello atteso. È stato uno shock”.
La sua vita sarà cambiata radicalmente dopo il Nobel.
“Il 2015 è stato terribile. Tutti volevano che tenessi conferenze in giro per il mondo, e ho finito per farne circa 200 in un anno. Non riuscivo più a fare il mio lavoro, così l’università ha iniziato a gestire tutti gli impegni. Poi, piano piano, sono tornato alla normalità”.
Nel suo lavoro il professor Akasaki ha avuto un ruolo chiave.
“Sì, assolutamente. È stato una figura fondamentale, un vero modello d’ispirazione. Anche lui da giovane lavorava con i cristalli come me. Riconosceva il mio impegno e apprezzava i miei sforzi. Sentirsi capiti e apprezzati è essenziale. Mi ha aiutato tantissimo.”
Ma da bambino sognava di diventare un premio Nobel?
“No, no. Volevo diventare un giocatore di baseball professionista. In Giappone i giocatori di baseball sono molto famosi, ammiravo loro, non certo gli scienziati o gli ingegneri...”.
E com’è nata la passione per l’ingegneria?
“Mio padre era ingegnere alla Suzuki e ho seguito le sue orme. Ma il vero punto di svolta è stato all’università. Un professore ci spiegò che in giapponese il significato originale di ingegneria è “connettere le persone“. Per me è stata una rivelazione”.
Quale sarà la luce del futuro?
“Credo che con i led abbiamo raggiunto un livello di efficienza vicino al limite teorico. Ma la luce non serve solo per illuminare. Possiamo usarla per comunicare. Ora con il mio team stiamo lavorando su nuovi display con micro-led, utilizzabili anche per occhiali smart. Potrebbero permetterci di comunicare, connetterci a internet e monitorare la nostra salute in tempo reale”.