È buona cosa avere un fratello maggiore. Specie se sei figlio unico. Gino era un fratello maggiore. Senza la retorica degli affetti e le mozioni familiari. Tanto più prezioso quanto incontrato per caso, nel vecchio, ruvido mestiere di cronista di strada e di campagna. Ci siamo conosciuti – e subito riconosciuti della stessa schiatta – durante un noiosissimo Consiglio comunale, in una di quelle sere ormai estinte di nebbia spessa, fuori e dentro il municipio. Corrispondenti per i nostri illustri fogli di carta, pagati a pezzo, a lacerto, a pallino. Lui era un giovane uomo già disilluso, con un lavoro ufficiale in altre ore della giornata.
Io? Uno sbarbato che sognava, contro ogni logica, l’assunzione e gli onori onerosi degli scribi. Gino, quando si innescava un certo suo slancio romantico e guerriero, sapeva alzare la voce e farsi rispettare da chiunque: occhio alla penna. Ma la sua voce, sempre pronta ad alzarsi in difesa del mestiere e della sua dignità, era altrettanto squillante nella convivialità, nella risata. C’era un tepore speciale al suo desco, un tepore che dipendeva, oltre le ottime pietanze di Antonella, dalle sere interminabili di mezza estate e da tutto il corredo di affabilità, speranze apparecchiate nel domani, motti di spirito e vino color di viola all’estremo sole. Il tepore speciale era, appunto, una cosa speciale, indefinita, era il suo modo, tenorile e impulsivo, di vivere la vita in sol maggiore. Forse mi sbaglio, forse rendo un riduttivo servizio al mio fratello in sol maggiore, sostando più volentieri nel simposio conviviale, ma mi viene a caldo di vederla così. Il mio Gino è quello sotto un pergolato, nel ferragosto in montagna; quello che s’illuminava pressoché di immenso stappando una veneranda bottiglia di Barolo; quello che motteggiava in contrappunto alle vivande, luccicando le prime stelle della sera. Ecco credo che Gino, fratello mio, possa sentirsi comunque a suo agio in questi ricordi conviviali, prima che il vento secco ci porti via tutti. Il desco di Gino, a buon diritto, apparteneva – e apparterrà sempre – all’ultima casa accogliente.