NoLo, ossia "a Nord di Loreto". Quartiere centrale nella riflessione urbana sul potenziale della cultura. La sua giovane, fiorente identità si svela in via Martiri Oscuri, "a casa dell’artista". Dove anche il fruttarolo ti indica l’abitazione-studio dell’ottantasettenne Emilio Isgrò.
Siculomilanese, maestro, inestricabilmente?
"Ho due mamme. Appartengo a quella stirpe di siciliani che nascono milanesi nel cuore".
Pioveva quando lasciò Barcellona Pozzo di Gotto, e il salotto delle signorine Pirandello.
"Quando arrivai nel ‘56 con la Freccia del Sud, treno degli emigranti, dalla provincia di Messina, Milano era vista come un’America italiana. Vi si potevano trovare anche i soldi per strada, forse".
Certamente, il lavoro.
"Se bussavi tutti aprivano. Senza farti diventare servo, anzi ti chiedevano di essere creativo".
Da privilegiato arrivò.
"Per studiare, infatti. La maggior parte dei miei coetanei partivano per fare i muratori e mandare i soldi a casa. Non erano ricchi mamma e papà, ma i loro sacrifici mi permisero d’iscrivermi alla Cattolica".
E per mantenersi da solo?
"Subito m’inserii nel giro dei giornali. In quello letterario m’introdusse Raffaele Crovi, che presso la casa editrice Einaudi era assistente di Elio Vittorini".
Un siracusano che organizzava esclusivi pranzi domenicali sui Navigli.
"Fra gli ospiti spesso Montale, il mio modello: giornalista pur restando poeta. La poesia, ostinatamente, io l’amavo".
Da poeta d’avanguardia, perciò, collaborò con Il Giorno?
"Ecco, un pezzo del 18 febbraio 1979: “Le vedove di Pasolini“, che era stato trovato morto nel novembre ‘75. Eppure il consumatore di giornali era ancora atterrito da mille scrittori e commentatori che tentavano di perpetuarne la memoria".
L’articolo sposta in effetti l’attenzione sulla guerra del Kippur e sul rincaro del petrolio.
"Insomma, dicevo di lasciar perdere i vaticini d’illimitato progresso, fondati su un mitico passato immaginario. La sola prova che il mondo esiste può essere fornita da un uomo (intellettuale, scienziato, artista, chiunque) con il proprio lavoro".
Tipico da milanese. E tutto il suo lavoro maestro Isgrò, una carriera che pare un romanzo picaresco, ci racconta nell’autobiografia “Io non cancello. La mia vita fraintesa“. Con un bel tratto nero su "non". Spieghiamo la "cancellatura".
"Per la verità, la capiscono tutti. È un dire “no“ per poter dire “sì“ alle cose che contano".
Come quando si correggono le bozze in un giornale?
"Sono diventato un cancellatore seriale di fronte al rischio che la parola poetica naufragasse nel mare di una comunicazione soprattutto visiva, fumetti, cinema, televisione..."
Una forma di poesia?
"Sì: cancellare non significa distruggere la parola, ma salvaguardarla per tempi migliori".
La "Cancellazione del debito pubblico" (2011), certo non la capiscono solo alla Bocconi, che l’ha acquisita nella propria Art Gallery.
"Vera istituzione d’élite. Hanno grande rispetto per l’arte perché si occupano di economia".
Casa Manzoni o Museo del ’900, chissà dove finiranno “I Promessi Sposi cancellati“…
"Dove me li chiederanno con più convinzione. Destinarli “a venticinque lettori e dieci appestati“ era chiaramente una boutade".
Della più grande "cancellatura" la sede c’è, ma poco frequentata.
"Piazza Gino Valle, la più grande di Milano, nucleo del piano di riqualificazione del Portello, accoglie un brano cancellato del “Ponte della Ghisolfa“ di Giovanni Testori. Che ha tanto amato Milano da farla amare anche a me".
Al punto di decidere di lasciare le sue opere alla città, attraverso una fondazione che sarà costituita.
"Già durante Museo City la casa-studio è aperta. Sa che era una stazione delle diligenze?"
Fa dedurre che sia abitata da qualcuno sempre pronto a partire. Per dove, a breve?
"Sto cancellando la Maja desnuda di Francisco Goya che verrà presentata alla Galería Cayón di Madrid a marzo. A Scicli, la capitale del barocco siciliano, mi preparano una mostra antologica. Il movimento, sì, anche una società lo trova camminando. Sono sempre pronto a partire. Per tornare".