Faceva tanto freddo poco più di due anni fa in autunno a Milano. Anche novembre è un mese complicato per chi non ha dimora e per dormire deve arrangiarsi come può. Sotto i tunnel della Centrale o accovacciati in palazzi sporchi e disabitati. È una lotta per la sopravvivenza, ma se non ce la fai agli occhi della gente passi per un “fantasma“ ucciso dalla clandestinità. Perché i morti invisibili non fanno rumore. I morti invisibili nessuno li cerca. Anche se hanno un volto e un cuore, la dignità e un borsone carico di sogni.
Issaka Coulibaly aveva 27 anni quando il suo corpo venne trovato esanime in un edificio abbandonato di via Corelli, usato come “dormitorio“ da chi non ha nulla. Ucciso dal gelo. Issaka, senzatetto come tanti. Non aveva una casa e un letto dove potersi riposare, era fuggito dal Togo qualche anno prima arrivando in Italia alla ricerca di un destino diverso, inseguendo il sogno di tutti i suoi coetanei: un pallone che rotola sui campetti della metropoli. E per un tragico scherzo del destino la sua esistenza si è spenta proprio a pochi metri da quel centro di accoglienza dove aveva sperato di rinascere.
A raccontarla sui social fu proprio il St. Ambroeus, perché Coulibaly, capelli e pizzetto biondi, aveva giocato proprio sui campi di via Corelli come portiere. E Milano era diventata la sua città. "Era fortissimo fra i pali, lo ricordiamo quando nel torneo estivo del Pini portò la squadra in finale. Però morire di gelo in una città come Milano non può essere classificato semplicemente come morte naturale - la riflessione dei dirigenti che conobbero il ragazzo -, se a Issaka fosse stato permesso di vivere regolarmente molto probabilmente non staremmo qui a ricordarlo, e lui, con una vita regolare, magari starebbe pensando a come rincominciare il campionato dopo la pausa invernale".
La fotografia è quella di una realtà amarissima. "Issaka è morto di clandestinità, perché quando non ti viene concesso di avere dei documenti sei costretto a vivere e a morire ai margini della società, senza la possibilità di lavorare regolarmente, senza la possibilità di affittare una casa, guidare un’auto o accedere a quei servizi basilari che sono concessi a tutti". Poi la chiosa finale: "Ci sono tanti ragazzi di origine africana che giocano a calcio, studiano l’italiano e dopo iter formativi si approcciano al mondo del lavoro, guardando il futuro con speranza – spiegano dal St. Ambroeus –. Ma ci siamo trovati di fronte anche a decine di situazioni di persone che pur avendo svolto un percorso di integrazione, trovato un impiego, imparato perfettamente la lingua creandosi un contesto sociale amichevole in cui inserirsi, si vedono negata la possibilità di vivere regolarmente in Italia". E a quel punto la clandestinità ti taglia fuori da tutto. Fino a ucciderti, come è successo due anni fa a Issaka.
Giulio Mola