
Claudia Bordoni
Milano, 11 aprile 2017 - La presero per una mezza matta, invece stava morendo. La mattina in cui Claudia se ne andò, medici e sanitari pensavano ancora che fosse solo una «paziente ansiosa». Si preoccuparono di quello, somministrandole un calmante. E nessuno si accorse che quella donna incinta di due gemelline stava sviluppando dentro di sé un’emorragia che nel giro di poche ore l’avrebbe condotta alla fine. «Ed è proprio perché l’attenzione è concentrata sull’ansia e sulla necessità di curare (solo) l’ansia, che incredibilmente operatori sanitari di grande esperienza in una struttura di massima specializzazione non si accorgono di quello che sta succedendo. È una possibile spiegazione degli eventi. Non è evidentemente una giustificazione».
Tecnicamente questa è una richiesta di archiviazione del procedimento penale, non essendo possibile dimostrare, secondo la Procura, il nesso di causa tra le omissioni dei sanitari e il decesso della donna. Ma senza alcun dubbio suona come un pesantissimo j’accuse: anche se non ci sarà un processo, non fu solo il destino avverso a uccidere la manager Claudia Bordoni, un anno fa alla clinica Mangiagalli. «La colpa che sussiste è una colpa grave», scrive il pubblico ministero. «I sintomi manifestati dalla paziente nel momento in cui si verifica una massiva ed improvvisa emorragia interna sono stati completamente travisati dal personale sanitario presente, attribuiti - in maniera apparentemente inspiegabile - ad un attacco di panico. Il peggioramento delle condizioni - con specifico con riferimento ai valori patologici della pressione - viene trascurato e mal interpretato».
Certo Claudia era una paziente non facile, che chiedeva spesso aiuto, sollecitava l’intervento di medici e infermiere, ma «l’unico trattamento adottato - denuncia il magistrato - è la somministrazione di un calmante che certo tranquillizza la paziente - peraltro in fase ormai pre-mortale - ed ha come effetto immediato quello di evitare ulteriori ennesime chiamate a infermiere, ostetriche, medici». «È forse per questo che muore Claudia», conclude sconsolato il pubblico ministero. Uno scenario che fa rabbrividire. A uccidere la donna, 37 anni, fu un’endometriosi, malattia che colpisce il tessuto dell’utero, «estremamente rara in gravidanza». La lesione per di più era localizzata «profondamente nelle pelvi», tanto da rendere la vicenda clinica di Bordoni «non tanto rara quanto quasi unica». E fino alle prime ore della mattina del 28 aprile, nessuna censura «nell’operato dei sanitari».
Ma tutto cambia intorno alle 10.20 di quel giorno. Claudia chiama le ostetriche e «rappresenta uno stato di debolezza». Pochi minuti dopo, sviene. È molto agitata, ha dolori diffusi, un brusco calo di pressione. «A questo punto - accusa la Procura - gli approfondimenti diagnostici, per quanto difficili, diventavano doverosi, non essendo giustificabile - e anzi altamente censurabile - l’attribuzione della sintomatologia presente ad uno stato d’ansia di rilievo psichiatrico». E invece da quel momento comincia il balletto delle assurde omissioni. Una ginecologa annulla addirittura l’ecografia già programmata «per le difficoltà di trasportare la paziente in sala ecografica». Una ragione «incomprensibile» per il pubblico ministero, «perché nei reparti di ostetricia sono normalmente disponibili ecografi portatili», ma anche perché «proprio il brusco peggioramento delle condizioni della paziente avrebbe dovuto suggerire di procedere ad accertamenti urgenti». E l’osterica che interviene due ore e mezza dopo, «pur in presenza di parametri vitali patologici, peggiorativi rispetto a quelli rilevati alle 10.25, omette di allertare il medico». Così altre due ostetriche e la capo ostetrica intervenute alle 13.30: nessun allarme «nonostante la persistenza di una condizione di ipotensione e bradicardia». Un’ora più tardi, Claudia era già morta insieme alle sue bambine. E a nulla poteva servire il taglio cesareo praticato in emergenza in quegli stessi minuti.