
Matteo Torretta
Milano, 3 agosto 2014 - "Milano la porto al dito". Lo racconta lo chef Matteo Torretta.
Ma come si è sposato da poco, non sarà mica bigamo?
Sì è vero mi sono unito in matrimonio con Cinthia Bouthier lo scorso 5 luglio ma idealmente ho sposato Milano, tanto che all’anulare della mano destra ho un anello in argento che ho fatto realizzare da un gruppo di giovani orafi milanesi su mio disegno.
Com’è questo anello?
E’ una fascia con al centro una pietra dura che da un lato ha lo stemma della città e dall’altro il Duomo in rilievo con sotto la scritta "ricordati", significa che non c’è momento in cui non debba ringraziare Milano.
L’ha stregato?
Questa città è diventata la mia meta dopo le scuole medie. Sono di Rho, figlio di madre pugliese di Taranto e padre lombardo di professione fotografo. I miei mi permisero di fare le superiori qui. Scelsi di frequentare l’Istituto alberghiero "Carlo Porta" a Bonola perché non mi sembrava molto impegnativo. Invece poi alle lezioni di cucina riuscivo benissimo tanto che il mio insegnante diceva che ero portato.
Aveva scoperto un talento che non sapeva di avere?
Sì, in realtà mettendomi ai fornelli mi veniva sempre in mente l’immagine di mia nonna che lavorava la pasta con le sue mani grandi e dai movimenti lenti e precisi. Era come una visione e forse mi ha indicato la strada.
Era sicuro che si sarebbe dedicato alla cucina?
In realtà mi sentivo un artista, anche se non sapevo ancora dove indirizzare i miei sforzi creativi. Certo sono sempre stato di taglia XL quindi non potevo dedicarmi alla danza. Ma tranne la cucina non mi interessava nient’altro. Volevo migliorare e andai all’estero per confrontarmi con culture gastronomiche diverse.
Dov’è stato?
Dopo il diploma preso nel 2000 decisi di andare a Parigi, perché in quel momento la cucina francese era molto in auge. Non conoscevo una parola della lingua, ma trovai lavoro in un bistrot vicino al Parlamento. Poi il colpo di fortuna: incontrai Pierre Gagnaire, uno degli chef più creativi della Francia. Lavorai con lui per due anni. Alla fine tornai a Milano.
Il primo amore non si scorda mai?
In quegli anni a Parigi continuavo a pensare a questa città. Di nuovo a Milano sono entrato nella cucina di Carlo Cracco: non è burbero, anzi mi ha insegnato logica e rigore. Poi ho lavorato anche con Giancarlo Perbellini e Antonino Cannavacciuolo. Ma non ho mai tradito Milano. Volevo impormi qui e a 27 anni sono diventato chef del Savini dove sono rimasto per quasi tre anni. Ora sono chef executive del ristorante "Asola" al 9° piano del "Brian & Barry Building", in San Babila. E’ una conquista che dedico a Milano, come la prima stella Michelin che mi auguro arrivi presto.
La zona della città che preferisce?
Via Marghera. Da adolescente la frequentavo dopo la scuola. Trascorrevo interi pomeriggi con i miei compagni seduto sulle panchine. Ci portavamo i radioloni, ascoltavamo musica e poi arrivavano le ragazzine. Ci dedicavamo al "dolce far niente". Ora ci torno anche per frequentare il mercato comunale che per me è come un parco giochi: vedere tutta quella frutta e verdura che per i diversi colori sembra la tavolozza di un pittore. E poi i meravigliosi tagli di carne. Già solo a guardarli mi vengono in mente le ricette.
A Milano trae ispirazione per la sua cucina?
Mi basta passeggiare per Milano per inventare nuovi piatti. Quando sono sui Navigli, l’odore di kebab mi fa venire l’idea di un piatto di agnello e capesante. Le hamburgherie del centro mi hanno ispirato il mio hamburger gourmet con la tartare di tonno, maionese affumicata, germogli di barbabietola e pane fatto in casa. Dopo essere stato nelle gelaterie di via Marghera ho creato il gelato alla lavanda. Ricordandomi le mie scorribande a San Siro da tifoso milanista e il panino da stadio con la salamella che mangiavo, ho cucinato un risotto con salsiccia cruda e peperoni affumicati. E in onore di Milano ho creato la "cotoletta street-food" che si mangia per strada. E’ il momento però di svelarle un segreto.
Quale?
Sulla schiena mi sono fatto tatuare la bandiera di Milano con sotto la scritta "Made in Italy". Insomma non solo al dito, Milano me la porto "proprio addosso".
di Massimiliano Chiavarone
mchiavarone@yahoo.it