La ricerca di frontiera: "Strappiamo all’ignoto un metro in più per tutti"

L’ultima sfida di Elena Cattaneo, senatrice e scienziata (a vita) della Statale. Erc Grant da 10 milioni per terapie su misura contro il Parkinson: la squadra vince.

La ricerca di frontiera: "Strappiamo all’ignoto un metro in più per tutti"

L’ultima sfida di Elena Cattaneo, senatrice e scienziata (a vita) della Statale. Erc Grant da 10 milioni per terapie su misura contro il Parkinson: la squadra vince.

di Simona Ballatore

MILANO

"In laboratorio possiamo collocarci alla frontiera della ricerca per conquistare un metro in più, per strapparlo all’ignoto. Ed è quando lo conquisti che ti rendi conto che è per tutti, che stai consegnando al mondo un pezzetto di conoscenza in più. Nella Biomedicina significa anche fare un passo avanti verso la speranza di una cura per malattie terribili". Elena Cattaneo, docente di Farmacologia della Statale di Milano, senatrice a vita e direttrice del Laboratorio di Biologia delle cellule staminali e Farmacologia delle malattie neurodegenerative, ha appena ottenuto un Erc Sinergy Grant con la sua squadra e altre tre ricercatrici (Annalisa Buffo del Dipartimento di Neuroscienze Rita Levi-Montalcini e del Nico dell’Università di Torino, Malin Parmar dell’Università di Lund, in Svezia, e Jenny Emnéus dell’Università Tecnica della Danimarca). Dieci milioni di euro per sviluppare il progetto “Custom-Made“, con terapie personalizzate a base di cellule staminali per Parkinson e Huntington.

Ricerca di frontiera in laboratorio e anche in Senato: come si conciliano questi due mondi?

"Per me sono due facce della stessa medaglia. Quello che studiamo nelle università e nei nostri laboratori serve a migliorare lo stato di salute del Paese, dell’Europa e di ben oltre. Mi piace l’idea di utilizzare il metodo della scienza per provare a contribuire all’attività legislativa del Parlamento: cerco di farlo ogni volta che posso. A volte si vince, altre volte si resta in sospeso".

E in quei casi, che si fa?

"Non bisogna indietreggiare: per quanto qualcuno o qualcosa cercherà di interferire con l’applicazione di un buon metodo, se ci sono prove ed evidenze resteranno lì anche domani. E questa è anche la regola del laboratorio, dove si lavora in squadra e si punta a domande alle quali nessuno aveva mai pensato. Si accetta la sfida che siano altri a dire se la tua idea sia giusta o sbagliata: a me piace molto questo controllo esterno, competente, della bontà della tua progettualità per garantire al cittadino che quello che proponiamo è il meglio che possiamo pensare".

Due anni fa il vostro progetto venne bocciato: quanto è importante anche il fallimento per raggiungere i risultati?

"Fondamentale. Quando ti spingi nelle frontiere delle ricerca e ti avventuri nell’ignoto a volte devi passare dalla strada sbagliata. Per vincere devi imparare a perdere: ti permette di guardare ai difetti del tuo pensiero, di migliorare. E per arrivare al traguardo è fondamentale la squadra, anche nei momenti di cedimento".

Quando è arrivata la svolta?

"In una mail, il 16 ottobre, dopo essere passati dalle Forche Caudine: “Funded“. La nostra progettualità ha convinto 15 valutatori, 10 revisori esterni, i competitor, che non hanno potuto fare altro che accettare la bontà dell’idea. Si tocca il cielo con un dito, prendi consapevolezza che la sfida comincia oggi, davanti al banco di laboratorio. Quando quel pezzettino di ignoto diventa conosciuto grazie agli esperimenti voli a un metro da terra. Il nostro cervello non si spegne mai: ancora oggi lascio il laboratorio e non vedo l’ora di riaprire la porta al mattino e nel frattempo continuo a pensare a quel che possiamo fare collaborando con gli altri laboratori in Italia, in Europa e oltre: è come se il mondo fosse un grande laboratorio. Quel che conta è l’obiettivo".

E lo avete raggiunto in quattro scienziate. Va ancora sottolineato?

"Sì, perché siamo ancora in fase di rincorsa. Pregiudizi e stereotipi ci circondano. Quella del soffitto di cristallo è la metafora sbagliata: dà l’idea solo di una piccola percentuale di donne che ce la fanno e si disinteressa di tutte le altre, che non arrivano neanche a vederlo questo pezzo di cristallo: la metafora giusta è quella del pavimento appiccicoso".

Che intrappola.

"Sì. Perché sin dalla nostra infanzia cresciamo con questi indirizzamenti urlati: io a scuola, nell’ora di educazione tecnica, facevo l’uncinetto e mio fratello il traforo. Il divario di genere esiste ancora e non va raccontato come qualcosa di glamour. Vanno analizzati i dati. Solo se lo studi capisci dov’è, cos’è e come si manifesta: è una malattia sociale. E siamo ancora imbevuti in questa discriminazione inaccettabile e insostenibile".

Dal suo osservatorio, come sta la ricerca in Italia?

"Fare ricerca in Italia si può. O meglio, esistono le condizioni sufficienti per fare ricerca e sopravvivere. Ma l’Italia deve fare di più per attrarre studiosi, trattenere quelli che ha. Deve essere promotrice di politiche per la ricerca che abbiano una visione temporale di almeno 5 anni. Vanno garantiti ai nostri ricercatori giustezza della valutazione, trasparenza delle procedure e tempi certi. Su tutto questo l’Italia è a intermittenza. Una volta fatta questa diagnosi però, se si vuole, si può rimediare".

Cosa vorrebbe vedere adesso, per la prima volta, Elena Cattaneo?

"Programmi per la ricerca disegnati per i giovani ricercatori. Io vorrei che il mio Paese desse la possibilità a tutti i giovani che hanno idee di poterle accendere".