
di Roberta Rampini
"Quello che abbiamo vissuto a marzo è stato drammatico, si combatteva contro un nemico che non si conosceva, eravamo spaventati, le informazioni sul virus e le indicazioni su come comportarci arrivavano poco alla volta. Oggi conosciamo di più il virus, sappiamo cosa ci attende quando entriamo a casa di una persona e sappiamo cosa fare, ma non ci siamo abituati". Cinquantuno anni, sposata, madre di due figli di 18 e 23 anni, Cristina Musazzi di giorno lavora come impiegata nel centro ippico di Lainate, nel tempo libero fa la volontaria di Rho Soccorso. L’associazione di pubblica assistenza di Rho da settimane è di nuovo in prima linea nella lotta al Covid: otto dipendenti, 215 volontari, otto collaboratori e nove corsisti, uomini e mezzi a disposizione di Areu.
Come funziona il suo lavoro da volontaria?
"Siamo organizzati in sei squadre. Io faccio un turno in ambulanza ogni sei giorni, ma ho dato anche la disponibilità a coprire i buchi quando ci sono colleghi assenti. E siccome credo che tutti possiamo fare del bene anche con piccoli gesti, a volte do una mano nella consegna della spesa a domicilio a Rho".
Ha mai pensato di fare un passo indietro per paura del contagio?
"Come no, soprattutto all’inizio. Avevo paura di infettarmi, nonostante il camice e il doppio guanto. Avevo paura di portarlo a casa. Mi cambiavo fuori dalla porta e mettevo tutti gli abiti in un sacchetto".
Oggi ha lo stesso timore?
"No, mi sento più sicura quando faccio il turno in ambulanza rispetto a quando sono in fila all’ufficio postale. In ambulanza indosso tutti i dispositivi di protezione individuale, tuta, guanti, doppia mascherina, calzari. Anche nei mesi estivi quando arrivavamo in pronto soccorso ancora con la tuta bianca i colleghi di altre ambulanze ci prendevano in giro scherzosamente".
C’è un aspetto di questa seconda ondata che non è cambiato rispetto a marzo?
"La difficoltà a entrare in contatto con le persone che soccorri. Sei completamente coperta, anche il viso e l’unico modo per comunicare sono gli occhi, devi cercare di creare empatia con lo sguardo".
Cosa è cambiato?
"A marzo trasportavamo solo pazienti molto gravi, adesso tantissimi con sintomi meno gravi, ma riconducibili al Covid".
In questi mesi avrà vissuto tante situazioni particolari, ce n’è una che le è rimasta nella mente?
"Certo, la condivido con te solo perché stiamo facendo l’intervista al telefono e quindi non vedi i miei occhi lucidi, altrimenti non te la racconterei. Un giorno siamo andati a casa di due coniugi molto anziani, la moglie Mariuccia stava male, l’abbiamo messa sulla barella per portarla all’ospedale Sacco di Milano. Mentre la stavamo caricando il marito si è avvicinato e chi ha chiesto se potevamo abbassare la maschera dell’ossigeno della moglie perché voleva vedere il suo sorriso. Sapeva che quella poteva essere l’ultima volta e voleva fissarlo bene nella sua mente".
C’è una cosa che ancora oggi è difficile fare?
"Sì, quando carichi sull’ambulanza il paziente e devi dire ai suoi familiari che lo salutano “non potete venire con noi, dopo vi contatta l’ospedale”. La solitudine che vivono i malati Covid è tanta, soprattutto per gli anziani".