
Francesco Billari, demografo, rettore dell'università Bocconi di Milano
MILANO – "Siamo diventati più attraenti per gli studenti statunitensi: analizzando le domande in arrivo dall’estero quest’anno gli americani sono terzi, dopo francesi e turchi". Francesco Billari, rettore dell’università Bocconi e demografo, è appena rientrato da Boston e New York.
Qual è lo stato dell’arte e quali possono essere gli scenari?
"Avevamo 546 iscritti americani nel 2019 in Bocconi, sono diventati 672 nel 2024-25. Ma abbiamo il numero chiuso: la crescita è più interessante se si guardano i più giovani, a cominciare dagli studenti delle superiori - molti ancora minorenni - che vengono qui per le summer school. È un’esperienza che gli americani fanno spesso per esplorare le università, un primo assaggio. Rispetto a cinque anni fa, gli iscritti dagli Stati Uniti sono aumentati più di quattro volte".
Si sta vedendo un’impennata nelle domande di iscrizioni per i corso di laurea triennali?
"Manca ancora un “pezzettino“, ma gli internazionali solitamente applicano nelle prime fasi: rispetto al 2019/20 siamo già a un +211%, il numero di domande dagli Usa è triplicato e sta aumentando anno su anno, abbiamo un 38% in più rispetto al 2024/25. Ad aumentare sono anche i master, del 105%. Siamo più attenti sì".
Perché?
"Dai nostri viaggi, parlando con i nostri alumni, sappiamo che ci sono delle precondizioni: la prima è avere corsi in inglese, lingua franca; la seconda è un’offerta concorrenziale rispetto a quella che hanno in mente, e quindi ottimi servizi, una didattica a misura di studenti, un’accessibilità di alloggi nel campus. Sono abituati a questo e qui lo trovano, anche se sul fronte alloggi ci piacerebbe averne di più. Ovviamente confrontano anche i costi di un’università privata no profit rispetto a quelli di un’università americana, molto elevati".
Anche la cara-Milano dal loro punto di vista non è così cara?
"Sì, anche se il costo non è un primo elemento di scelta per uno studente americano, ma un punto in più a nostro favore. Milano li attrae perché è internazionale, per la moda e per il design. Analizzando quali studenti attraiamo, troviamo soprattutto studenti che hanno radici in Italia e in Europa, che vogliono girare il mondo, che arrivano da un’America urbana".
Quali atenei guardano al di fuori dall’America?
"Storicamente la St Andrews, l’università dove si sono laureati i principi William e Kate. C’è un rapporto forte con Firenze, attraverso i loro atenei, che frequentano soprattutto per gli study tour, e con la John Hopkins di Bologna. A Milano abbiamo costruito noi questo legame con studenti che non vengono in Bocconi a trascorrere un semestre ma usciranno con la nostra laurea. Siamo riusciti a farlo grazie a una rete di alumni negli Stati Uniti, che mostrano le possibilità di carriera di chi ha studiato in Bocconi e ora lavora lì, oltre a finanziare borse di studio e a mantenerci in contatto con il mercato del lavoro negli Usa. All’inizio gli alumni erano tutti italiani, adesso abbiamo i primi studenti statunitensi che portano anche la loro testimonianza e le loro carriere. E a dare credibilità è anche il legame che abbiamo stretto con 48 università americane oltre ai ranking internazionali. Che contano, perché gli studenti li guardano".
Si vede già l’effetto delle politiche di Trump? Potrebbe esserci un’ulteriore impennata delle domande verso l’Europa?
"In realtà io sono più preoccupato di un approccio non amichevole nei confronti del mondo universitario: preferirei libertà di scienza e movimento. Non riesco a gioire del fatto che qualcuno venga da noi perché non sta bene dove sta e guardi altrove. Abbiamo bisogno di una circolazione di cervelli, non di limitazioni e “dazi“. I titoli di studio vanno riconosciuti ed è un sistema che sta funzionando: non è in discussione, ma credo sia nell’interesse di tutti mantenerlo. Potrebbe esserci qualche domanda in più, ma la sfida dell’attrattività non si gioca sul breve periodo, ma sul medio termine e ci stiamo riuscendo".
È appena rientrato dall’America: che clima ha trovato?
"Gran parte dei nostri alumni internazionali è preoccupata da una maggiore chiusura del sistema. E mi ci metto anch’io, che ho vissuto la Brexit: quando c’è una spinta alla chiusura e alle barriere non è un bene, al di là delle opinioni politiche diverse che ciascuno può avere. Non è quello che cercano le persone aperte al mondo".
Siete in una fase di scouting di studenti e docenti anche voi?
"Sempre. Da 12 anni è stata costituita l’associazione Friends of Bocconi. Personalmente vado due volte l’anno a incontrare alumni, sostenitori, studenti in mobilità e genitori degli studenti americani. Organizziamo eventi, partecipiamo alle fiere delle scuole: per attrarre devi essere presente. Poi il circuito virtuoso si autoalimenta, come è successo con la Francia. E stiamo attraendo anche i docenti: sono 24 i professori statunitensi oggi in servizio, erano sei nel 2019".