DIEGO VINCENTI
Cronaca

Le maestre di una vita. Il sogno di Genovesi

Nell’ultimo libro racconta le donne della sua famiglia che lo hanno cresciuto "Mi hanno insegnato dolcezza, umiltà e di avere cura del canto della cicala".

Fabio Genovesi, versiliese, narratore di storie e di gare ciclistiche

Fabio Genovesi, versiliese, narratore di storie e di gare ciclistiche

Un uomo davanti al mare. Appoggiato alla sua bicicletta. Ce lo si immagina così Fabio Genovesi, narratore di storie e di gare ciclistiche, sempre in bilico fra la scrittura e la fuga in barca. Negli orizzonti di una Versilia parecchio distante da gazebo e flute di champagne. Ed è qui che prende vita l’album familiare di ’Mie magnifiche maestre’ (Mondadori), presentato oggi al teatro Era di Pontedera e il 19 a Villa Bertelli al Forte dei Marmi.

Nel libro parla del passato per guardare al futuro. "È così. Ma non è una cosa che ho scelto. Sono bravo a cogliere i doni che arrivano, non a scegliere. E nella settimana in cui ho compiuto 50 anni, sono venute a trovarmi in sogno le donne che mi hanno cresciuto: mia madre, le nonne, le zie e le zie acquisite. Un ricordo però privo di quella malinconia un po’ sterile. Le loro fotografie sono qualcosa di vivo".

Un affascinante artificio letterario? "No, no, è successo! Siamo una famiglia che ha sempre creduto nei sogni, intesi come strumenti dalla libertà meravigliosa, capaci di raccontare dell’umano e non solo del nostro inconscio, come ci ha spinto a credere la psicanalisi".

L’insegnamento più prezioso? "Avere cura del canto della cicala. Un canto antico, che proviene da lontano, in cui ognuno porta la propria piccola, importantissima parte. È il rovesciamento della favola, considerando che la formica fa una vita orrenda, una briciola dopo l’altra, simbolo della nostra società contemporanea. Le mie maestre mi hanno quindi insegnato a cantare. Ma anche un altro paio di cose interessanti".

Dica. "La dolcezza e l’umiltà. Non siamo nulla ma siamo l’unica cosa che abbiamo. Dentro un mondo da affrontare con gentilezza, dote rara e rivoluzionaria".

Non pare uno di quegli scrittori che alzano i gomiti per farsi spazio sotto canestro. "No. E devo dire che tanti libri possiedono splendidi scenari nascosti dalla presenza invadente del loro autore. Io non mi domando cosa le persone possano pensare di me. Ma se sono riuscito a farmi dimenticare".

Bella immagine. "La felicità presuppone un rischio. Sempre. Tanti di noi sono insoddisfatti. Alcuni non reagiscono per necessità. Ma altri solo per il timore dell’incognito. Ribaltare il tavolo significa non accettare questo modo di intendere la vita".

Come si è avvicinato alla scrittura? "In casa mia non c’erano libri, la vita si imparava sulle barche. Ma ogni estate arrivavano in pineta le compagnie di burattini di Napoli e Salerno. Facevano tre repliche al giorno, io le guardavo tutte. E in quel momento sono entrato in contatto con le storie. Ho capito poi che anche i libri ne contenevano parecchie e che la scrittura poteva unire le mie due grandi passioni: le storie e la musica".

Riferimenti? "Guareschi, Collodi. La letteratura araba e quella sudamericana: García Márquez o Juan Rulfo, che in Messico è considerato un genio ma qui credo di conoscerlo solo io".

Il mare? "È casa mia. Una madre. La cosa più vicina a Dio che conosca".

Una passione più terrena: la bicicletta. "Sono cresciuto guardando il ciclismo. È stato un onore quando il Corriere mi ha chiesto di scrivere del Giro. Poi è arrivato l’invito dalla Rai di commentare le tappe in diretta, un’esperienza pazzesca".

Lei racconta il Paese oltre alle gare. "C’è chi mi dice che parlare del Colosseo per un minuto e mezzo è troppo. Un grosso errore. Sono queste le occasioni che permettono di far scattare scintille di curiosità in chi ascolta. Di far conoscere la nostra cultura, trasformando l’orgoglio per il nostro Paese in un sentimento più consapevole".