Milano, 14 novembre 2024 – Il Ministero dell'Interno è stato condannato dalla Corte d'Appello della seconda sezione civile del Tribunale di Milano a risarcire 3 milioni di euro alla proprietà del Leoncavallo per il mancato sgombero del centro sociale di via Watteau.
La sentenza del collegio presieduto da Carlo Maddaloni ha completamente ribaltato quella di primo grado, che aveva dato torto alla società L'Orologio srl della famiglia Cabassi (con condanna a pagare spese processuali per 30mila euro). Per i giudici, "può ritenersi acclarata la natura illecita del contegno serbato dall'amministrazione, che, pur nella piena consapevolezza dell'occupazione abusiva che interessava lo stabile oggetto di causa, non ha dato corso all'esecuzione del provvedimento giudiziario e, adducendo solo generiche difficoltà di ordine pubblico in caso di sgombero, ha lasciato che il tempo passasse, senza adoperarsi effettivamente per pervenire a una soluzione".
La storia
Nelle motivazioni del provvedimento, è ricostruita tutta la storia dello storico centro sociale, che è stato fondato nel 1975 e che nel 1994 si è definitivamente spostato nell'ex cartiera in zona Greco. La lunga e intricata vicenda processuale ha un primo snodo decisivo il 18 marzo 2003, quando il Tribunale di Milano condanna l'associazione Mamme antifasciste del Leoncavallo al rilascio dei 10mila metri quadrati. Un anno e mezzo dopo, il 10 novembre 2004, la Corte d'Appello conferma la pronuncia di primo grado, che diverrà irrevocabile il 2 settembre 2010 con il verdetto definitivo della Cassazione. Il giorno della vigilia di Natale del 2004, la società L'Orologio notifica le sentenze di merito in forma esecutiva, insieme all'atto di precetto che intima agli occupanti di lasciare subito l'immobile. L'associazione ignora il provvedimento, e a quel punto la palla passa all'ufficiale giudiziario.
Lo sgombero mai eseguito
L'11 marzo 2005, avviene il primo accesso dell'ufficiale giudiziario, che però non trova nessuno con cui interloquire; a quel punto, rinvia le operazioni di rilascio al 26 maggio 2005. Una settimana prima della data prefissata, i Cabassi scrivono a prefetto, questore, sindaco, presidente della Provincia e governatore regionale per chiedere che all'accesso sia presente anche la forza pubblica, così da garantire "la fruttuosità dell'esecuzione". E invece, quel giorno, l'ufficiale giudiziario deve prendere atto dell'impossibilità di effettuare lo sfratto, vista da un lato "l'opposizione degli occupanti" e dall'altro "l'assenza della forza pubblica".
Si va avanti così per anni, fin quando si apre uno spiraglio: è l'epoca della trattativa tra la Giunta Pisapia e la proprietà. Il piano prevede che i Cabassi lascino il capannone di via Watteau al Comune, consentendo così la regolarizzazione del centro sociale (che dovrà pagare un affitto a Palazzo Marino). Alla fine, però, il progetto non andrà mai in porto.
La richiesta di risarcimento da 24 milioni
La proprietà si rivolge al Tribunale civile per chiedere al Ministero dell'Interno e alla Presidenza del Consiglio dei ministri 24 milioni di euro di danni provocati dalla "mancata disponibilità dell'immobile", quindi dal mancato sgombero del Leoncavallo. In primo grado, il Tribunale civile esclude dal processo Palazzo Chigi e respinge tutte le richieste dei Cabassi, condannandoli a pagare 30mila euro di spese legali. In sostanza, per i giudici, i proprietari non hanno diritto al risarcimento, ma al massimo a un indennizzo previsto dalla legge Pinto del 2001. Finita? No, perché i proprietari di via Watteau fanno appello, ottenendo nei giorni scorsi il ribaltamento del verdetto.
La causa
Stando a quanto emerge dalle motivazioni della sentenza datata 9 ottobre 2024, l'Avvocatura dello Stato ha negato la natura illecita della condotta di Viminale e Palazzo Chigi e "dedotto la pretesa esistenza di valide ragioni a sostegno del diniego dello spiegamento della forza pubblica". I legali dei proprietari hanno invece rilanciato la richiesta di risarcimento, escludendo l'opzione indennizzo e sostenendo che "la mancata messa a disposizione della forza pubblica per oltre 18 anni costituisca un illecito, da cui è derivato un danno ingiusto consistito nell'impossibilità per L'Orologio di sviluppare l'area, locarla o venderla, calcolato sulla base del canone locativo di mercato, oltre al danno d'immagine".
La decisione
Dopo aver ribadito che Palazzo Chigi va escluso dal processo e che le responsabilità vanno ascritte solo al Viminale (e ai suoi organi territoriali Prefettura e Questura), la Corte d'Appello ha sentenziato che i Cabassi hanno diritto al risarcimento per il danno subìto. I giudici hanno richiamato in particolare alcune sentenze della Cassazione, a cominciare da quella che ha stabilito che "il rifiuto di assistenza della forza pubblica all'esecuzione dei provvedimenti del giudice, che sia determinato da valutazioni sull'opportunità dell'esecuzione medesima, costituisce un comportamento illecito lesivo del diritto alla prestazione e come tale generatore di responsabilità dalla parte della pubblica amministrazione".
Tradotto: l'autorità a cui viene richiesta la forza pubblica "non è chiamata a esercitare una potestà amministrativa, bensì a prestare i mezzi per l'attuazione in concreto della sanzione". In caso contrario, si legge in un altro pronunciamento delle Sezioni unite della Suprema Corte, si creerebbe una "situazione addirittura paradossale". Detto altrimenti: non è possibile che al privato venga imposto di rivolgersi allo Stato "per poter realizzare il proprio interesse" di tornare in possesso dell'immobile occupato, senza che poi, in caso di sentenza favorevole, gli venga garantita la "forza che solo lo Stato è autorizzato a dispiegare" per riappropriarsi del bene illecitamente sottrattogli.
Le riunioni del Comitato in Prefettura
Nella sentenza, si citano anche diversi passaggi di verbali del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, l'organo che si riunisce settimanalmente in Prefettura per affrontare le principali problematiche legate alla sicurezza in città e nell'hinterland. Il tema Leoncavallo è stato più volte al centro di quei vertici a Palazzo Diotti. Sin dal 28 settembre 2005, quando l'allora prefetto osserva che "lo sgombero forzoso del Leoncavallo potrebbe creare verosimilmente problemi di ordine pubblico". Il 18 gennaio 2011, sempre stando a quanto riferito nelle motivazioni, lo sfratto sembra vicino: "In occasione del programmato accesso da parte dell'ufficiale giudiziario, si dispone il concorso delle forze di polizia nelle operazioni di sgombero dello stabile, sussistendo le condizioni favorevoli sotto il profilo dell'ordine e della sicurezza pubblica nel capoluogo". Il 16 marzo, però, il Comitato prende atto di un fatto nuovo: "l'emersione di un margine per un avvicinamento delle singole posizioni delle parti, che potrebbero ragionevolmente acconsentire, in tale ottica, a un rinvio "lungo", dell'accesso da parte dell'ufficiale giudiziario". Un avvicinamento che non si concretizzerà fino in fondo, nonostante un lungo tiramolla.
Il calcolo del danno
Detto questo, i giudici hanno chiosato così: "Le esigenze abitative degli occupanti abusivi non possono mai giustificare la mancata attuazione di misure efficaci a ripristinare il diritto dell'appellante e men che meno un attendismo tuttora in corso". E ancora: "Diversamente da quanto affermato dal Ministero, l'unica discrezionalità di cui la pubblica amministrazione gode, quando sia chiamata a dare attuazione a un provvedimento giudiziario, è verificare se quel provvedimento esista davvero". Quanto deve pagare il Viminale? Non essendoci le condizioni per determinare una liquidazione analitica del danno, i giudici hanno stabilito di far partire i calcoli dal 2014, ipotizzando come ragionevole per lo sgombero (mai eseguito) un lasso di tempo di 9 anni dal primo accesso dell'ufficiale giudiziario del 2005. Da qui è stato fissato a 30 euro al metro quadrato all'anno il presunto valore locativo, da moltiplicare per i 10.130,50 metri quadrati del Leoncavallo. Risultato finale: 3,039 milioni di euro.