
di Nicola Palma
"Foto 15. Marano Antonino, nato a Mascali (Catania) il 4 agosto 1944. Ora che sento il nome e l’ingiuria “killer delle carceri“, è una persona che volevo incontrare perché mi era giunta voce che si stava mettendo di nuovo in attività criminali". A modo suo, il collaboratore di giustizia Carmelo Porto ha dato per la prima volta agli investigatori la conferma che Tonino Marano era tornato nel giro, dopo quasi mezzo secolo dietro le sbarre e quell’appellativo legato a due omicidi compiuti in cella. Ieri al detenuto più longevo d’Italia ed ex sicario dei Cursoti milanesi, che manco a dirlo si trovava già in galera perché fermato nel maggio 2019 con una pistola 7.65 e perché poi accusato nel dicembre successivo di concorso nell’omicidio di un trentenne, è stata notificata un’ordinanza di custodia cautelare in cui viene ricostruito il suo legame con il clan catanese Santapaola-Ercolano. Nel provvedimento di 360 pagine, emesso dal gip del Tribunale etneo Andrea Filippo Castronuovo su richiesta dell’aggiunto Francesco Puleio e dei pm Marco Bisogni e Santo Distefano, Tonino Marano, detto “U vecchio“, viene definito "soggetto che apportava al gruppo la sua esperienza criminale", specializzato in "estorsioni e recupero crediti". In libertà condizionale dal 2014 e protagonista del libro "Ancora un giro di chiave", nel giro di pochi anni Marano è tornato nel luogo in cui ha passato gran parte della sua esistenza: il carcere. Lì ci era entrato la prima volta nel 1963, a 19 anni, quando era già padre di due figli: accusato di aver rubato varie cose, tra cui peperoni, melanzane, una bicicletta e una moto, viene condannato complessivamente a più di 11 anni. Nel giugno del ’71, esce, ma rientra poco dopo, imboccando un tunnel di violenza. Nell’ottobre del ’75 il primo delitto nel carcere di Catania "per difendere mio fratello da un accoltellamento"; poi due tentati omicidi tra marzo e giugno ’76 e a luglio il secondo delitto a Potenza, "contro un disgraziato che aveva violentato un ragazzino in cella tutta la notte". Negli anni Ottanta, Marano diventa protagonista di episodi che segneranno la storia criminale di quel periodo. Un giorno a San Vittore, col complice Antonino Faro, fa irruzione nella cella dello storico rivale Vincenzo Andraous per ucciderlo con un tubo della doccia che "avevamo staccato con le mani" per "assassinare un infame"; l’intervento delle guardie peniternziarie fa saltare il piano. Condannati a 17 per quell’agguato andato male, si rifiuta di rivelare il movente ai giornalisti: "Se fosse morto si poteva dire, ma purtroppo è vivo. Quando morirà ne riparleremo...". Il 5 ottobre del 1987, le vittime designate diventano lui e Faro: nell’aula della Corte d’Assise di Milano, durante la requisitoria del pm Francesco Di Maggio al processo Epaminonda, il detenuto Nuccio Miano spara con una pistola diversi colpi contro di loro, ma ferisce due carabinieri. Il tentativo di vendetta arriva un anno dopo, il 7 novembre del 1988, nell’aula-bunker delle Vallette di Torino: da una delle gabbie, Marano lancia una bomba-carta contro la cella in cui si trovano i fratelli Nuccio e Luigi “Jimmy“ Miano, ma l’ordigno artigianale manca il bersaglio, sventrando un termosifone in ghisa. Storie da vecchia mala che sembravano consegnate agli annali della criminalità. Fino a ieri.