Liberi di giocare. Liberi di divertirsi. Liberi di sognare. Carcere di San Vittore a Milano, nel cortile adibito all’ora d’aria dei detenuti, c’è un pallone che rotola (anzi, più di uno, visto che sette-otto finiscono fuori dalle quattro mura in altre zone del penitenziario già nel riscaldamento) fra le due porte di un campo di calcio a 5 in sintetico. Consumato e rattoppato. Dettagli per chi trova in quella macchia di verde sbiadito la sensazione di libertà, la possibilità di ritagliarsi interminabili minuti di felicità. Si, perché anche oltre le sbarre c’è vita. Si può provare a divertirsi e ad immaginare un futuro migliore.
Dalle 13.30 si gioca una partita speciale per tutti: i S. Victory Boys da una parte, i giornalisti de il Giorno con alcuni colleghi di TeleLombardia dall’altra. Una sfida inseguita per due mesi. Da una parte ragazzi con un passato complicato alle spalle, un futuro da scoprire ma con il talento fra i piedi (sono in testa alla classifica del torneo Open di calcio a 7 organizzato dal CSI), dall’altra i cronisti con un po’ di ruggine e il fiato corto, la pancetta che accompagna il tocco felpato di alcuni. Ci sono pure gli arbitri Stefano e Maurizio, gli educatori Mario e Lucia, l’allenatore Simone, la fotografa Giorgia, tutti del Centro Sportivo Italiano, angeli custodi dei detenuti nelle attività sportive.
Due tempi da trenta minuti senza storia (vincono loro 18-2), perché la storia da raccontare è un’altra. Quella di un paio d’ore trascorse col sorriso sulle labbra ed emozioni forti, fra chiavi che girano nella serratura ad ogni porta che si apre e quei seicento passi che conducono dall’ingresso all’erba sintetica, passando composti tra i raggi dove senti il silenzio di chi ti guarda dietro le sbarre e osservi le celle buie in cui chi non gioca prova comunque ad osservare, pronto ad esultare senza invidia, quelli che sono in campo.
Quando metti piede sul piccolo rettangolo di gioco respiri a pieni polmoni. Ci si cambia frettolosamente sotto un tetto, non è un centro sportivo con docce, panchine e zona bar. Ma va bene così. E poi, fra un palleggio e l’altro prima di cominciare, ascolti i racconti e le speranze di chi vive la detenzione bramando la libertà. Non ci sono volti tristi, ma espressioni intrise di umanità. Uomini che meritano rispetto. Alcuni avversari sono molto giovani, poco più che ventenni. E fra i tre portieri ce n’è uno che di anni ne ha cinquanta. "Lo dico ai ragazzi più giovani, non fate le cavolate che ho fatto io", ammonisce uno dei “senatori“ della squadra. Ci prende sotto braccio. Ci presenta i suoi compagni di squadra. C’è Cher, un ragazzo senegalese dal sorriso contagioso e piedi educati. Poi Pedro, brasiliano silenzioso ed elegante con la maglia numero 3. Ed Enzino, il portiere tifoso milanista, che di questo gruppo è fra i più anziani.
"Quanto ci piacerebbe giocare qualche partita fuori da qui...". Ci prendono a pallate ma senza umiliarci, non commettono falli, non si sentono fischi dell’arbitro. Chi resta fuori sussurra: "Mister, quando entro?". In fondo è una festa. Alla fine vola via anche il terzo tempo, fra coppe ("Posso portarla in cella?" chiede il numero 10), medaglie, patatine ed energiche strette di mano prima delle ultime fotografie. No, i selfie no. I telefonini si lasciano fuori. Mancano pochi minuti alle 15, arrivano gli agenti, si torna tutti indietro ripensando a quelle due ore d’aria. Con la promessa di rivedersi in campo. Liberi di giocare.
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