Un dipendente della nettezza urbana licenziato perché passava troppo tempo al bar ha provato a fare ricorso alla Corte di Cassazione, ma non ha ottenuto altro che la conferma del licenziamento. Il lavoratore, che peraltro aveva un ruolo dirigenziale, era stato “beccato” da un investigatore privato assunto dall’azienda in ripetute pause di oltre 40 minuti non registrate nei fogli presenze (che venivano “ritoccati”). I suoi legali contestavano una presunta carenza formale nell’autorizzazione alle indagine affidate al detective, ma i giudici hanno ritenuti utilizzabili quegli accertamenti investigativi.
L’operatore ecologico, si legge nella sentenza riportata dallo studio legale Cataldi, è stato sorpreso “costantemente in luoghi pubblici e per tempi irragionevoli a degustare consumazioni e chiacchierare con i colleghi”. Insieme a due colleghi, in particolare, si recava al bar in orario di lavoro, ovviamente non autorizzato, concedendosi pause anche di quasi un’ora.
Una questione di minuti
A fare giurisprudenza, qui, è soprattutto l’attenzione posta dai giudici al tempo trascorso al bar: riguardo a quelle pause – si legge nella sentenza – non si puà dire che “duravano il tempo necessario a ristorarsi, trattandosi di incontri che raggiungevano, in via esemplificativa, la durata di 36 minuti (21.10.16), 38 minuti (10.11.16), 42 minuti (22.11.16) e in cui la gran parte del tempo era trascorso nel colloquio successivo alla consumazione della colazione”.
Violazioni da parte del dirigente
La Corte ha sottolineato che è da “escludere che la determinazione del tempo e della durata della pausa di riposo, da non confondere coi momenti di soddisfazione delle necessità fisiologiche, sia rimessa all'arbitrio del lavoratore”. Il licenziamento è stato ritenuto congruo anche perché il dipendente aveva importanti compiti dirigenziali e di coordinamento e “tenendo conto che la percezione del cittadino nel vederlo costantemente in luoghi pubblici e per tempi irragionevoli a degustare consumazioni e chiacchierare con i colleghi” nuoce “al decoro aziendale e all’immagine che si crea nella cittadinanza”.
Truffa ai danni dell’azienda
La Cassazione ha dato quindi ragione al datore di lavoro, dato che si trattava di “reiterate violazioni dei doveri di ufficio”, “tanto più gravi in chi rivestiva un ruolo apicale”. I giudici hanno considerato il licenziamento “proporzionato”, rispetto ad una condotta che assumeva “rilievo penale e, in particolare, del reato di truffa”, in quanto “il mancato svolgimento della prestazione lavorativa nei termini in cui era dovuta, per avere il lavoratore goduto di reiterate pause decise unilateralmente e arbitrariamente, seguita da inveritiere attestazioni dei fogli di servizio dell'integrale osservanza dell'orario pattuito, ha determinato l'ingiusta percezione di una retribuzione parzialmente non dovuta con correlativo danno per l'azienda”.