di Andrea Gianni
Milano, 29 luglio 2024 – “Le carceri sono polveriere, pronte a esplodere alla minima scintilla. Gli spazi per intervenire ci sarebbero, quello che manca è la volontà politica”. Luigi Pagano ha trascorso la sua vita professionale nel sistema carcerario. Entrato nell’amministrazione penitenziaria nel 1979, ha diretto diversi istituti fra cui, per 15 anni, San Vittore, uno dei penitenziari italiani con il peggior tasso di sovraffollamento. È stato provveditore regionale per la Lombardia, vicecapo del Dap nazionale, ha lanciato sperimentazioni e progetti innovativi. Ora, in pensione, osserva una situazione che resta «drammatica», fra suicidi di detenuti, rivolte e problemi sedimentati nel tempo.
A Prato si è registrato il sessantesimo suicidio di un detenuto nelle carceri italiane da inizio anno.
Da anni vengono lanciati allarmi inascoltati sulle condizioni dei detenuti, sul sovraffollamento, su una politica penitenziaria poco pertinente con l’articolo 27 della Costituzione e con la dignità umana.
Lei è stato alla guida di diverse carceri. Quale ruolo possono giocare, in questo contesto, i direttori?
È un errore pensare che la buona volontà del singolo, pur necessaria, possa risolvere i problemi. Serve una volontà politica e amministrativa, un’azione collettiva che in questo momento manca». Per tamponare il sovraffollamento bisognerebbe puntare sulle misure alternative alla detenzione? «La strada è questa, anche per la finalità di un reinserimento nella società. Il problema è che le carceri ospitano già persone che potrebbero usufruire di misure alternative ma di fatto non possono accedere per le loro condizioni sociali, perché sono poveri, stranieri o senza una casa.
Un obiettivo che è anche al centro del decreto battezzato come “svuota carceri“. Qual è il suo giudizio?
Sono molto scettico. Non c’è nulla in quel decreto, a mio avviso, che possa realmente risolvere i problemi delle carceri.
Bisognerebbe costruire nuovi istituti?
Non servono nuove carceri ma, piuttosto, carceri nuove. Le condizioni in tanti istituti, penso ad esempio a San Vittore, Regina Coeli a Roma, Brescia, sono indecenti. Servirebbe un progetto generale di riqualificazione creando spazi per attività ludiche, lavorative e di formazione. Se una persona rimane in una cella sovraffollata per 20 ore al giorno, soprattutto con questo caldo, è logico che aumenti il rischio di autolesionismo o gesti violenti. Spesso chi parla di carceri non c’è mai stato, io ho diretto per 15 anni San Vittore e so che cosa significa il sovraffollamento. Consideriamo, poi, che un terzo dei detenuti sono imputati in attesa di giudizio, quindi presunti non colpevoli. Come si può pretendere legalità se lo Stato è il primo a non rispettare la legge e a violare l’articolo 27 della Costituzione? Siamo già stati condannati dalla Corte europea dei diritti umani e, dopo la sentenza Torreggiani, senza un cambio di passo rischiamo di essere condannati ancora.
Le indagini sulle violenze da parte di agenti della polizia penitenziaria al carcere minorile Beccaria di Milano, e inchieste in altre zone d’Italia, hanno sollevato anche il problema degli abusi sui detenuti.
Senza voler negare le responsabilità personali degli agenti coinvolti, questi sono ulteriori indicatori di un clima esplosivo, di un humus dove basta una scintilla per creare un incendio, di un disagio vissuto anche da chi lavora nelle carceri.
Per prevenire i suicidi bisognerebbe investire sull’assistenza psicologica?
Servirebbero più psicologi ma, senza un cambiamento delle condizioni, rischia di non servire a niente, perché tra i detenuti viene meno la speranza.
Si è riaperto un dibattito politico sull’indulto. Lei è favorevole?
Di amnistia o indulto si parla, purtroppo, sempre in termini di convenienze elettorali. L’indulto servirebbe per tamponare l’emergenza, ma sarebbe come aprire il tappo di un lavandino pieno senza però aggiustare il rubinetto.